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Il dovere di non abituarci al sopruso. Luci sull’Ucraina

30 Dicembre 2022

Era il 24 febbraio 2022 quando i carri armati russi oltrepassavano i confini dell’Ucraina, dando inizio a un’invasione su larga scala che avrebbe riportato indietro le nostre menti ai periodi più bui della storia europea. Siamo ormai arrivati alla fine dell’anno, la guerra è ancora in corso e spiragli di pace non se ne vedono.

All’inizio del conflitto e durante i primi mesi di combattimenti, i giornali aprivano con le notizie sulla guerra, i TG dedicavano molti servizi agli aggiornamenti dal fronte, nei siti online dei quotidiani — le cui scelte redazionali sono particolarmente dipendenti dalla logica dei clic — le news sull’Ucraina erano sempre in alto e nei talk show serali esperti e sedicenti tali ne discutevano abbondantemente.

Nei primi mesi di guerra, il flusso di informazioni era talmente grande da raggiungerci anche in maniera accidentale: un occhio buttato al giornale nel bar sotto casa, uno scroll svogliato sui social, una seduta di zapping compulsivo insonnoliti sul divano. Erano molte le occasioni in cui, pur non volendolo, qualcosa ci raggiungeva lo stesso. Naturalmente questo non garantiva un sapere a tutto tondo, per così dire, ma era sufficiente a tenere l’argomento in tendenza.

Adesso, invece, la dinamica è cambiata: se vogliamo restare aggiornati, infatti, dobbiamo attivarci, dobbiamo fare quel piccolo sforzo in più di cercare le informazioni — sforzo che, ricordiamolo, dovrebbe essere la normalità.

La copertura mediatica della guerra è dunque diventata insufficiente? No: è pieno di ottimi giornalisti e ottimi studiosi che ci aggiornano quotidianamente, ma non riescono più a raggiungerci in modo involontario e, se non facciamo niente per alimentare l’attenzione, la guerra, giorno dopo giorno, sparisce silenziosamente dalle nostre teste.

In questo caso non si tratta tanto di una critica al mondo dell’informazione, quanto di un fenomeno tipicamente umano. Le nostre vite sono continuamente scandite da turning points, eventi improvvisi che deviano il naturale corso delle cose.

In un primo momento, la nostra attenzione per quel fatto è estremamente alta: cerchiamo di indagarne a fondo le cause, ne discutiamo con vigore e siamo emozionalmente suscettibili. Poi, con il passare del tempo, la situazione cambia: succedono nuove cose e l’attenzione per quel precedente fatto cala, come se ci assuefacessimo alla nuova realtà.

Lo stesso processo si è verificato con eventi collettivi come la guerra in Ucraina, ma anche la pandemia: all’inizio si è osservato un picco di attenzione, un’opinione pubblica agitata e perfino l’emergere di ansie eccessive dettate dall’irrazionalità (vedi la paura della terza guerra mondiale); in seguito c’è stato un costante calo d’attenzione interrotto da leggere riprese, subito svanite, dovute a sporadici fatti degni di nota; infine una sorta di assuefazione, spesso sfociata in un deplorevole menefreghismo.

Il punto è che, mentre la nostra attenzione cala, la brutalità delle truppe russe rimane costante o peggio si amplifica: per questo non possiamo lasciare che la sopraffazione e la violenza diventino un’abitudine.

È doveroso, dunque, rimanere connessi a ciò che succede in Ucraina, fissare dei concetti senza lasciarli impolverare, lucidandoli e aggiustandoli continuamente grazie a confronti, letture e discussioni, e poi ribadirli, finché giustizia non sarà fatta.

Da mesi la Russia sta attaccando deliberatamente i civili e si è macchiata di crimini gravissimi come stupri e torture nei confronti della popolazione ucraina. Sembra spiacevole da dire, eppure esiste un modo giusto di combattere la guerra e ci sono delle regole che, pur in un contesto micidiale come quello del fronte, vanno rispettate. La principale è che non si possono attaccare i civili, ma esclusivamente obiettivi militari: un principio che la Russia sta violando sistematicamente da ormai dieci mesi.

Non possiamo tacere di fronte al sopruso e non possiamo accettare che uno stato annetta con le armi un suo vicino. Per questo occorre insistere con la strategia adottata finora: sanzioni all’aggressore da un lato, fornitura di aiuti militari all’aggredito dall’altro.

Qualcuno potrebbe obiettare che questa strategia ha un costo che è faticoso da sostenere: in fondo abbiamo già tanti problemi, perché togliere qualcosa a noi per offrirla agli ucraini? Che ce ne importa? Il punto che molti faticano a comprendere è che smettere di sostenere la resistenza ucraina non significherebbe risolvere magicamente tutti i nostri problemi, bensì moltiplicarli.

In primo luogo perché noi non siamo soli, ma facciamo parte di un sistema di alleanze (Unione Europea e Nato) che ci hanno garantito pace, stabilità e benessere per decenni. Smarcarsi da questo sistema sarebbe esiziale.

In secondo luogo perché c’è un concetto da tenere a mente, un concetto che il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg ha spiegato in modo chiaro e che io sintetizzo brutalmente: potete anche fregarvene delle sofferenze dei civili, potete vedere quelle terribili immagini di Bucha e non provare alcuna emozione, ma, cinicamente, aiutare l’Ucraina significa fare il nostro interesse, perché se l’Ucraina perde l’Europa torna a essere un posto poco sicuro.

In questo momento dobbiamo sostenere un costo elevato, è vero, ma se non lo facessimo ora ci ritroveremmo a dover pagare un prezzo ancora più alto in futuro, perché l’inazione creerebbe un precedente: consentire a un regime autoritario di prendersi con la forza ciò che vuole. Questo renderebbe il mondo, che di regimi autoritari abbonda — pensiamo a Russia, Cina e Iran su tutti —, un luogo pericoloso.

In questo momento storico, il tema più importante a livello politico è la guerra in Ucraina. Il governo Draghi prima, e il governo Meloni ora, hanno tenuto una linea chiara e saldamente ancorata all’Alleanza Atlantica, nonostante le spinte in direzione opposta provenienti perfino dalle loro stesse maggioranze. In particolare, i soggetti che si sono fatti promotori di un approccio più indulgente nei confronti della Russia di Putin sono stati il M5s di Giuseppe Conte, la Lega di Matteo Salvini, Forza Italia di Silvio Berlusconi e la sinistra radicale, non condensabile in un vero e proprio leader.

Fra i tanti modi per proporre la fine del sostegno all’Ucraina, quello più subdolo è senza dubbio quello di chiedere “un negoziato di pace”, perché ci si ammanta di una parola candida e innocente come pace, ma, grattando via la patina luccicante, quello che si intende davvero è la resa nei confronti dell’invasore.

Tutti vogliamo la pace e non esiste nessun “guerrafondaio in preda a furie bellicistiche”, ma la pace non è un concetto astratto che volteggia nell’aria e purtroppo bisogna indicare come si intende raggiungerla.

L’unica pace giusta è il ritiro dell’aggressore all’interno dei confini internazionalmente riconosciuti e, se la Russia non intende arretrare, questo risultato va raggiunto resistendo con le armi. Il popolo ucraino sta combattendo e morendo per la libertà nel senso più puro del termine, e occorre rammentare che deporre le armi non significa necessariamente pace, se ciò implica la sottomissione all’invasore.

Benché siano restie ad ammetterlo, si percepisce chiaramente come molte persone considerino la resistenza ucraina un fastidio, un impiccio, che non gliene importi nulla di chi prevarrà purché i problemi di casa loro finiscano. Abbiamo chiarito come queste persone, oltre a essere moralmente abiette, siano anche concretamente irrazionali.

Siamo arrivati alla fine dell’anno e le immagini dei palazzi distrutti dalle bombe, dei soldati che combattono senza sosta, delle donne e dei bambini che soffrono nei rifugi, delle fosse comuni stracolme di cadaveri, sembrano non toccarci più il cuore. Mentre passiamo le feste in compagnia dei nostri cari, ricordiamoci che in Ucraina ci sono persone come noi, ma senza riscaldamento, con poca acqua e poco cibo, che non si danno per vinte e resistono, resistono, resistono. Per poter vivere, un giorno, come viviamo noi ora. Per poter raggiungere, un giorno, quella libertà che noi, a volte, non ci rendiamo conto di avere. 

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