Al momento al centro del dibattito pubblico vi è senza dubbio il conflitto in Ucraina: la guerra nel paese est europeo è il tema che, giustamente, monopolizza le trasmissioni televisive e i notiziari, riuscendo addirittura nell’ardua impresa di scalzare il COVID come argomento più trattato dai media. Questo delicato tema ha però anche fatto sì che tutte quelle questioni considerate da molti secondarie siano accantonate: tra gli altri, il tema della transizione ecologica, in realtà molto legato a ciò che sta succedendo proprio al confine dell’Unione Europea.
Infatti, la guerra in Ucraina sta mettendo in discussione gli obiettivi che l’Europa si è data per la transizione energetica, pregiudicando, forse, la possibilità di raggiungere i target prefissati dalla Commissione Europea e dai governi nazionali: un disastro sia dal punto di vista economico, dato che occorrerà ripensare la strategia e i sussidi messi in campo per la transizione, con conseguente perdita sul piano dei profitti, che dal punto di vista ambientale, perché non bisogna scordarsi che, nonostante tutto, il cambiamento climatico è sempre in atto.
Come detto prima, la lente di ingrandimento dei media è orientata sul tema “ambiente” ma solo in relazione all’energia, altro tema caldo del momento. Vediamo meglio come i due temi sono legati.
Il legame tra guerra in Ucraina e transizione ecologica
Tra i temi che legano maggiormente i due argomenti citati prima, il più importante è sicuramente quello che ruota intorno alla gestione delle materie prime: l’Ucraina è il sesto produttore al mondo di ferro e possiede la più grande riserva di manganese in Europa, oltre ad avere importanti giacimenti di carbone nella zona del Donbass, e anche per questo Mosca vuole fortemente il controllo di questa regione. Con la situazione attuale, i prezzi dei metalli sono schizzati alle stelle, complice anche l’inflazione che si stava affermando già prima dell’invasione, facendo sì che si creasse una situazione di panico tra investitori e produttori, anche considerando che molte materie prodotte nel paese est europeo sono di vitale importanza per la costruzione, tra le altre cose, di telefoni o impianti rinnovabili.
E proprio le rinnovabili sono al centro del dibattito sull’energia, perché con un probabile embargo sul gas e sul carbone russo, la strategia per arrivare a zero emissioni nel 2050 (obiettivo condiviso tra tutti i paesi europei) cambierà drasticamente: molti stati infatti si affidavano al gas per avere una fonte energetica di transizione che li traghettasse verso un’economia fatta di sole energie rinnovabili, ma ora che la situazione è precipitata, diventa quasi obbligatorio cambiare rotta.
Il mix energetico italiano
Prendiamo l’esempio dell’Italia: il nostro paese ha un mix energetico fortemente legato al gas, che è stato scelto dai nostri decisori politici e dai nostri tecnici come fonte a cui fare riferimento, diminuendo così le percentuali di petrolio e carbone, due combustibili più inquinanti rispetto al gas naturale. Al 2020, il gas conta per il 48,5% circa del mix energetico del Belpaese, a fronte di un 10% tra petrolio e carbone e di un 41% circa di energie rinnovabili. Di questo 48% di gas, quasi la metà (43%) viene importato dalla Russia.
Facendo qualche rapido calcolo e dando per scontata l’approvazione dell’embargo UE sui combustibili russi (cosa non totalmente sicura vista l’opposizione di paesi come l’Ungheria), il prossimo inverno rischiamo di ritrovarci senza una buona fetta di energia: anche per questo il governo italiano sta lavorando per diversificare l’importazione di gas da altri paesi, come ad esempio Algeria, Qatar o Azerbaijan.
Queste nazioni fanno pagare di più rispetto alla Russia, ma i benefici superano i danni, dato che questi stati hanno una reputazione migliore rispetto a Mosca. Se però vogliamo analizzare queste nazioni dal punto di vista democratico (uno dei principali motivi per i quali molti non vogliono più acquistare gas dalla Russia, dato che Putin ha dimostrato che è a capo di un paese non democratico e imperialista), non abbiamo di fronte veri e propri campioni di democrazia: stiamo pur sempre parlando di paesi che nel Democracy Index del 2021 vengono classificati come “regimi autoritari”, e che spesso, come nel caso del Qatar e dei Mondiali 2022, organizzano eventi di rilevanza mondiale per “ripulirsi” dalla loro cattiva reputazione.
Diverse soluzioni: Francia e Italia a confronto
Ritornando però al tema del mix energetico, ogni stato ha intenzione di risolvere la questione energetica a proprio modo, con soluzioni spesso antitetiche e tra loro agli antipodi. Prendiamo come esempio l’Italia e la Francia, due grandi paesi UE che hanno dati simili per quello che riguarda le emissioni totali: al 2019, i cugini d’oltralpe emettevano 436 mila tonnellate di gas climalteranti all’anno, mentre noi italiani 418 mila. Se esaminiamo però le emissioni relative al settore energetico, i dati cambiano drasticamente: la Francia emette “appena” 40 mila tonnellate di CO2, mentre l’Italia più di 94 mila. Questa forbice è destinata ad ampliarsi, dato che i due stati stanno prendendo soluzioni molto diverse in materia energetica.
La Francia anche grazie alla rielezione di Emmanuel Macron all’Eliseo, sta supportando sempre di più l’energia nucleare (che ormai conta per più del 35% del mix energetico nazionale d’oltralpe), e intende diminuire sempre di più l’energia prodotta da petrolio e carbone, che grossomodo hanno una percentuale simile all’energia prodotta dal nucleare. Macron ha fortemente voluto investire sul nucleare, giudicata da molti analisti e dallo stesso leader di En Marche come un’energia pulita che emette zero emissioni. Contemporaneamente il presidente francese intende dare una spinta alle rinnovabili per arrivare alla neutralità climatica nel 2050 senza l’ausilio di gas o di altri combustibili fossili. Forse è anche grazie al successo di Macron e alla sua rielezione che molti paesi stanno riconsiderando l’energia prodotta dalla scissione degli atomi: da chi il nucleare lo ha già (Finlandia e Slovenia, tra gli altri) e chi invece vuole realizzarlo.
L’Italia invece, come detto prima, ha un forte legame con il gas naturale, e salvo ripensamenti il governo intende rimanere sulla stessa strada: arrivare a zero emissioni grazie al gas come energia di transizione, in attesa di rinnovabili più stabili o perlomeno non intermittenti. Per sopperire al gas russo però, oltre alle alternative citate nella sezione precedente, il governo intende riaprire alcune centrali a carbone, di modo da avere energia immediatamente.
Questa mossa è criticabile sotto diversi punti di vista: innanzitutto, se l’embargo europeo ai combustibili fossili russi andrà in porto, occorrerà ripensare a chi chiederemo il carbone, dato che Mosca conta per oltre il 52% del carbone importato in Italia. Inoltre sarebbe un pazzesco autogol autorizzare l’uso massiccio del carbone dato che quest’ultimo è altamente inquinante (più di gas e petrolio) e per di più è molto difficile liberarsi di questa fonte di energia una volta adottata in maniera pesante (basta vedere i paesi in via di sviluppo, che usano il carbone in maniera rilevante e non riescono a staccarsene).
Guerra tra ideologia e realtà
Con il conflitto in Ucraina che va avanti da oltre 100 giorni, bisogna pensare realmente a come vogliamo arrivare al 2050, a quando teoricamente dovremmo avere un bilancio di zero emissioni di gas climalteranti: potremmo lasciarci prendere dall’ideologia e non rispettare questi impegni per avere sempre energia (soluzione egoistica che non tiene conto del clima e del nostro pianeta, però purtroppo molto in voga in alcuni ambienti di destra), oppure continuare con la stessa strada già avviata dal governo attuale o da quelli precedenti, rischiando però di non raggiungere mai gli obiettivi prestabiliti.
La realtà come al solito ci offre spunti molto più interessanti delle riflessioni teoriche: nonostante i continui proclami al “green” e alle rinnovabili, più del 90% dei progetti di impianti solari ed eolici nel nostro paese vengono bloccati da Ministeri e Regioni e continuano a esistere solo su carta. Un esempio? Il progetto di un grande parco eolico al largo delle coste del Sulcis, nell’estremo sudovest della Sardegna che avrebbe garantito 504 MW di energia, che viene bloccato dopo l’analisi VIA (Valutazione di impatto ambientale) per via dell’assenza di una “reale utilità per la collettività quando sarebbe opportuno puntare sulla ricerca”.
Sono proprio questi i casi che ci fanno capire la grandissima contraddizione tra misure a breve termine e a lungo termine: le conseguenze di ciò che sta succedendo in Ucraina dimostrano per l’ennesima volta che la politica si rifiuta di prendere strade scomode, preferendo stare nel mezzo ed evitare di scegliere. Purtroppo, è proprio questa attitudine a far sì che non si accontenti nessuno e si scontenti tutti, e questo vale per il tema della guerra come per quello dell’ambiente.