Thomas Dahms - Wikimedia Commons

“My body, my choice” non è uno slogan progressista

8 Agosto 2023

Emerso a partire dal 1969 nel contesto delle lotte per i diritti riproduttivi, “my body, my choice” rappresenta ancora oggi, e in tutto il mondo, uno slogan simbolo dei movimenti femministi.

Si tratta di una formula efficace, che svolge la sua funzione nel trasmettere un messaggio immediatamente comprensibile alle masse a cui si rivolge. Presenta tuttavia una problematica concettuale su cui è utile riflettere: il paradigma biopolitico che esprime si basa su una lettura in chiave individualistica del rapporto tra persona e stato.

In funzione del diritto di ogni persona all’autodeterminazione individuale, il corpo viene concepito come uno spazio sacro. In quanto tale, ne è di conseguenza delegittimata ogni riduzione della sua autonomia da parte dell’intervento statale

Esiste un tema di oppressione e controllo del corpo della donna da parte del patriarcato, e contro tale oppressione questa retorica della e per l’autonomia dei corpi ha svolto, e continua a svolgere, un ruolo importante. Soprattutto in tema di diritto a un’interruzione di gravidanza libera e sicura, la rivendicazione del potere decisionale delle donne sui propri corpi è stata funzionale a contrastare uno degli strumenti con cui il patriarcato conserva i tradizionali rapporti di genere.

Pensare, tuttavia, che le ragioni per cui questa lotta è giusta risiedano nel diritto dei corpi a non essere una sfera soggetta a decisioni governative, significa svuotarla di ogni contenuto progressista. Perché non c’è nulla di progressista nell’edificazione di regni delle libertà, anzi. La loro esistenza rappresenta un limite alle capacità di tutela degli interessi collettivi da parte delle istituzioni.

Non esistono sfere della persona che non siano politicamente connesse con la realtà circostante. Rilanciare questa concezione atomistica dell’individuo è un assist all’egemonia culturale del liberalismo, che ne esce rafforzata.

Ad uscirne ridimensionate sono invece le ambizioni di lotte che sono nate per mettere in moto processi di liberazione collettiva, ma che finiscono per essere l’ennesima stampella progressista di una cultura politica incapace di pensare oltre i diritti individuali.

Se la risposta del progressismo alle necessità dei subalterni diventa l’estromissione dello stato dalle nostre vite e l’introduzione di diritti inalienabili, attraverso quali strumenti il femminismo può incidere nella storia? Se abbandoniamo una concezione dello stato democratico quale mezzo legittimo con cui governare la società e risolvere le sue contraddizioni, come affronteremo quelle lotte che invece richiedono la presenza e l’azione delle istituzioni?

“My body, my choice” vale anche per questioni come l’utero in affitto? Cosa c’è di progressista nel considerare legittimo l’affitto, da parte di persone ricche, dell’apparato riproduttivo di donne povere (che si espongono a rischi che vanno dalle possibili complicazioni nel corso della gravidanza alla morte)?

“My body, my choice” vale anche quando si parla di prostituzione? Nel contesto di una società maschilista e classista, la difesa del sex work non è un assist clamoroso al patriarcato?

Spostando il focus dalle questioni di genere, “my body, my choice” non esprime la stessa visione biopolitica di chi ha contestato le restrizioni per i non vaccinati nel corso di una pandemia globale che ha ucciso milioni di persone? Non è lo stesso principio con cui da oltre tre anni si continua a delegittimare il ruolo delle istituzioni nella tutela della salute pubblica?

Austrian man protesting vax mandate holding sign with text “My Body My Choice” and an image of a scratched through vaccine – via Wikimedia Commons

Se viviamo in una contemporaneità in cui lo slogan progressista più popolare è un inno all’inalienabilità dei diritti individuali, lo dobbiamo all’egemonia culturale conquistata dal liberalismo dalla fine della guerra fredda. Un’egemonia che si manifesta in ciò: nella rinuncia, anche internamente a movimenti, collettivi e partiti, a una concezione moderna della democrazia quale strumento a disposizione dei subalterni per il riequilibrio dei rapporti interni ad una società.

Sconfitta dalla storia, la sinistra socialista è stata sostituita da un progressismo liberale che vede il coronamento della democrazia non nella tutela degli interessi delle masse, bensì nella conquista di una sempre maggiore libertà individuale.

Il progressismo non ha bisogno di separare ulteriormente le proprie istanze da visioni sistemiche alternative al liberalismo. Non ha bisogno di rendere innocue le proprie rivendicazioni riducendole a questioni individuali. Rimuovere gli strumenti attraverso cui lo stato governa la società significa rendere vano l’esercizio del conflitto, e senza conflitto non c’è progresso.

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