Carlo Raso/Flickr

OSTRICHE, BUSSOLE, E TEMPESTE

12 Giugno 2020

Visto da una certa prospettiva il COVID-19 rischia di essere il colpo mortale inflitto al mondo che conoscevamo dopo l’11/9. In particolare, Stati Uniti, Unione Europea e Italia sono tra le aree che hanno subìto i costi più alti in termini di vite, impoverimento, perdita di fiducia nel futuro. Eppure è possibile considerare questa crisi come un’occasione per attuare cambiamenti che non avremmo mai potuto fare altrimenti. Dobbiamo usare questa pandemia per ripensare le nostre società e decidere quale strada vogliamo costruire e percorrere negli anni a venire.

«Cos’è la Storia?». Chiudendo gli occhi per un attimo, immaginate che qualcuno vi ponga questa domanda. Prendetevi del tempo per riflettere. Adesso riaprite gli occhi. La domanda ovviamente era retorica. La Storia è davanti a voi. Ci siete dentro. E mai come di questi tempi ne siamo tutti, dolorosamente, consapevoli.

I primi mesi del 2020 non avrebbero potuto essere più imprevisti e drammatici. Ormai guardiamo quel numero a specchio e vediamo solo una lugubre antonomasia del «cigno nero» talebiano. Siamo diventati familiari con quest’idea che descrive un fenomeno così improbabile da essere ritenuto impossibile. Ci siamo accorti tutti che i due termini non sono sinonimi.

Guardando da una certa prospettiva, tuttavia, il COVID-19 è solo l’ultimo dei colpi assestati all’impianto globale in ordine cronologico. Il virus ha cambiato la faccia del mondo in cui vivevamo dall’11/9. Secondo l’etimologia, una “crisi” è un momento di decisioni importanti e radicali. Pare che, in tal senso, avremo molte occasioni per farlo nei mesi a venire. Di certo ne avremo il bisogno.

TEMPESTE PERFETTE

Stati Uniti, Unione Europea, e segnatamente l’Italia, sono diventati aree di crisi a livello mondiale. L’America è ormai una nazione il cui tessuto sociale è lacero: città contro periferie, millennials contro baby boomers, bianchi contro neri, ricchi contro poveri. Nella simbologia dello stemma statunitense, l’aquila tiene in becco un cartiglio con su scritto: E Pluribus Unum, cioè “I molti che diventano una cosa sola”. Una realizzazione abbastanza lontana dagli intenti originari.

Purtroppo, ciò che accade a Washington si riflette con una portata rilevante sul mondo. Politicamente gli USA hanno plasmato istituzioni che oggi ci sembrano eterne, come Nazioni Unite e Fondo Monetario Internazionale. Militarmente sono l’unico paese che possiede la capacità di proiezione bellica indiscriminata su tutti e cinque i continenti. Economicamente producono 20 trilioni (migliaia di miliardi) di beni e servizi all’anno (la Cina “solo” 13, l’Italia appena 2). E come se ciò non bastasse, godono di uno strapotere assoluto grazie alla loro principale merce d’esportazione: il dollaro.

Ciò nonostante, gli Stati Uniti si arrovellano da tempo per capire se il loro potere stia in realtà declinando. Diciannove anni fa subirono un tremendo attacco militare sul loro suolo, e per tutta risposta si lanciarono in due guerre disastrose in Afghanistan e Iraq; sono stati l’origine della Grande Recessione del 2008, poi trasmessa oltreoceano; da ultimo, sentono il fiato sul collo di una paura che viene da Oriente, dove la Cina — potenza in ascesa – è ritenuta capace di scalzare il primato statunitense in molti settori. Ma se l’America abdica al ruolo di “guida” dei paesi liberal-democratici, può il Dragone cinese che non brilla esattamente per il rispetto dei diritti – siano essi civili, politici o altro – sostituirsi ad essa? Ci sarebbero altri candidati con più titoli. Certo, nessun paese singolarmente inteso potrebbe farlo. Ma un intero continente, allora sì.

Molti considerano l’Unione Europea solo una gigantesca macchina burocratica affetta da un vulnus insanabile, il cosiddetto deficit democratico. Ma è un fatto che l’orizzonte geografico e politico circoscritto dall’UE sia oggi una delle aree più avanzate al mondo in diversi campi, ad esempio: rispetto e tutela dei diritti umani; gestione dei problemi legati alla privacy e ai dati; qualità della vita etc.

Anche qui, però, l’Unione in sé e per sé, cioè intesa come progetto politico, è impantanata da anni nelle secche di un mortifero immobilismo. Nell’arco di un decennio Bruxelles ha attraversato tre momenti che hanno portato ogni volta a preconizzare un suo crollo imminente: 2010, crisi del debito sovrano; 2015, crisi dei migranti; da ultimo la crisi legata al coronavirus. In ognuna di queste circostanze, le difficoltà hanno portato via – come una picconata – la base comune del disegno europeo, cioè quella «solidarietà di fatto» tra gli Stati che Monnet voleva costruire attraverso «realizzazioni concrete». Ai rischi economico-finanziari si sono aggiunti quelli dell’instabilità sociale e, di conseguenza, politica. Tra gli alfieri del sovranismo europeo, Le Pen, Orban, Salvini, solo la prima non è riuscita ad arrivare al governo. Un dato abbastanza indicativo.

All’interno dell’Europa, l’Italia ha sempre avuto un posto d’eccezione. A modo suo. Fin dai primi del Novecento eravamo considerati l’ultima tra le Grandi Potenze, o la prima tra le piccole. Questo dubbio, che si trascina ancora oggi, è la foglia di fico che nasconde la realtà di un paese che vive in uno stato di crisi perenne da anni. I problemi italiani sono risaputi e si possono snocciolare a memoria: debito pubblico monstre (in rapporto al PIL); bassi tassi di investimento in istruzione, ricerca, infrastrutture; cattiva amministrazione; clientelismo e burocrazia asfissiante; lentezza della giustizia; declino ventennale della produttività; disoccupazione giovanile; invecchiamento della popolazione; bassa natalità; e a fare da ciliegina sulla torta il paradosso di una tendenza quasi sistemica all’instabilità politica.

Tutti questi aspetti, sommati, fanno dell’Italia la proverbiale casa costruita sulla sabbia, che rischia di crollare ad ogni intemperia. O peggio, come ormai è accaduto: il paese è diventato ostinatamente refrattario al cambiamento, anestetizzato e intorpidito, com’era la Sicilia descritta da Don Fabrizio a Chevalley nel Gattopardo.

SILVER LINING

Ora, benché il quadro fin qui dipinto sia cupo, non dobbiamo dimenticare che vi sono anche motivi di speranza. Sarebbe troppo semplice pensare che così non fosse. Gli anglosassoni dicono Every cloud has a silver lining, per indicare che la linea d’argento della luna spunterà sempre da dietro le nuvole, dopo qualsiasi tempesta. Le vicende degli ultimi giorni, contrariamente a quanto si potrebbe credere, vanno in tale direzione.

In America, le proteste di massa seguite alla brutale uccisione di George Floyd hanno dimostrato due cose: che il razzismo è un cancro nella pelle del paese, ma anche che esistono volontà di cambiare le cose, solidarietà diffusa, e un movimento che ha acquisito la massa critica per apportare cambiamenti reali, purché si organizzi e si dia chiari obiettivi. Se si pensa che Obama è stato eletto non un secolo fa, ma appena dieci anni, si capisce che la battaglia non è impossibile. E stando a sempre più sondaggi, le elezioni presidenziali di novembre potrebbero essere molto più incerte nell’esito di quanto si pensi.

In Europa, analogamente, la proposta della Commissione di un Recovery Fund per aiutare i paesi più colpiti dal COVID-19 ha tutti i crismi per entrare nei libri di storia, alla voce “i tornanti dell’Europeismo”. È probabile che il piano verrà annacquato. Bisognerà vedere di quanto. Ci saranno negoziazioni e un mercanteggiare furioso. Ma ciò avvalora la tesi che questo passo sia storico. La proposta di emettere debito comune, ovvero mutualizzarlo, e magari proseguire sulla strada di una politica di bilancio a livello comunitario, non è una delle tante strade che l’UE potrebbe percorrere, è la strada regina il cui sbocco è l’unione federale.

L’Italia, purtroppo, rappresenta l’incognita più difficile da risolvere in questo sistema di equazioni. Nondimeno vi è speranza. Il ragionamento è controfattuale: siamo un paese che da decenni subisce colpi devastanti, i quali hanno un effetto più dannoso su di noi giacché siamo più fragili. Eppure, restiamo in piedi. Il paese ha un patrimonio grandissimo, e non è solo la bellezza. È tutto quell’insieme di realtà di eccellenza, esempi di buona amministrazione, centri di ricerca e innovazione, che messi insieme producono effetti a cascata sul territorio. Siamo sempre stati fenomenali nella gestione delle emergenze. La Costa Concordia. Il Ponte per Genova. Occorre diventare migliori formiche. Si ripete ad nauseam che bisogna pensare «non alle prossime elezioni, ma alle prossime generazioni». E ogni volta dimentichiamo che De Gasperi non l’ha solo detto. L’ha anche fatto.

LA BUSSOLA

Allorché cerchiamo di rispondere alla domanda “Che cos’è la Storia?”, la nostra risposta riflette con maggiore o minor consapevolezza, la nostra situazione odierna, ed è parte della risposta che diamo alla domanda “Qual è il nostro giudizio sulla società in cui viviamo?”

E. H. Carr, “Sei lezioni sulla storia”, Torino, Einaudi, 2000, p.12.

In conclusione, come razionalizzare la prima metà del 2020 e forse buona parte del decennio davanti a noi? Un punto di partenza è capire che da qui in poi si tratta di ricostruzione. L’ordine globale ante-COVID-19 è definitivamente mutato. Lo si deduce dalla contrazione in percentuale del commercio sul PIL mondiale; dal sempre maggior numero di leader che propongono una visione improntata alla chiusura, alla divisione, allo scontro; dall’aumento delle disuguaglianze e degli squilibri tanto inter quanto intra statali, che determinano a loro volta la creazione di cleavages prima inesistenti.

Dobbiamo ricostruire le nostre comunità nazionali e contribuire, come Stati, anche alla ricostruzione della comunità internazionale. Per far ciò è possibile che occorrano strumenti nuovi, certo. Ma in fondo il genere umano si orienta da millenni sempre con lo stesso strumento, che fa egregiamente il suo lavoro puntando a Nord. Semmai, siamo noi che dobbiamo scegliere dove la bussola deve condurci.

Settantacinque anni dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, il mondo deve ripartire dalle stesse idee di società aperta e internazionalismo liberale. La globalizzazione «intelligente» (Rodrik), mediante la «libera circolazione di beni, persone, servizi e capitali» – pur con le sue storture – è stata e rimane il miglior volano per la crescita, la fuoriuscita di masse di individui dalla povertà, il mantenimento di un ordine sostanzialmente pacifico, favorendo l’incontro con il diverso, la composizione degli scontri, e il mutuo arricchimento.

Soprattutto, se c’è una cosa che il coronavirus ha finalmente fatto capire a tutto il mondo, è che negli anni a venire ci confronteremo sempre più spesso con problemi comuni (specialmente il cambiamento climatico) che richiedono per forza soluzioni comuni e condivise. Ognuno di noi deve sentire la responsabilità di prendere parte a quella che è sempre stata, e sempre sarà, una «intensa lotta tra l’intelligenza, che spinge avanti, e un’indegna, timida ignoranza che ostruisce il nostro progresso» [«… a severe contest between intelligence, which presses forward, and an unworthy, timid ignorance obstructing our progress», motto della rivista The Economist]. Dobbiamo smettere di pensare che il futuro sarà peggio del passato. The World is your Oyster, la tua ostrica è il mondo, si dice nella cultura anglosassone. Lo ripeteremo nel 2038 a chi è nato oggi.

Dario Neglia

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