Silvio Berlusconi, 2013 - Wikimedia Commons

Silvio Berlusconi, l’italiano

13 Giugno 2023

Istrionico, effervescente, carismatico, ma anche dissoluto nei costumi e non di rado inopportuno, Silvio Berlusconi ha impresso una svolta senza precedenti ai linguaggi della televisione e poi della politica.

Quando ha intrapreso la scoscesa via di Palazzo Chigi, non lo ha fatto semplicemente presentandosi alle elezioni con un partito, ma ideando nuove categorie di studio per la comunicazione – “la discesa in campo” – e la scienza politica – “il partito-azienda”.

Ha innestato e condotto l’unica, chiassosa e maccheronica rivoluzione che potesse sedurre davvero un popolo per sua natura controrivoluzionario. Flashback di una storia tutta italiana.

Niente poteva descrivere Silvio Berlusconi meglio del mestiere che ha esercitato fino al 1994: “imprenditore“, “colui che intraprende“. È rimasto, in fondo, un imprenditore anche quando, cumulando interesse personale e un perspicace intuito per gli orientamenti degli italiani, ha edificato un monumento destinato a lasciare un segno indelebile nella storia politica repubblicana.

Un imprenditore che, come ogni persona intelligente, conosce i suoi clienti (o elettori) e per questo sa ammaliarli, “rapirli”. Che lo faccia vendendo oggetti in forma di spot televisivo o facendo di sé stesso un mito politico, poco conta.

Il Cavaliere, infatti, si è sempre presentato come un “italiano”: fu il primo a declinare in più angolazioni la propria immagine, trasformando la sua personalità in un progetto ambizioso e depauperando drasticamente il linguaggio politico dei suoi contenuti ideali. Il padre di famiglia con figli davanti al caminetto, il self-made man che non prende sonno prima delle tre di mattina e il Grande Timoniere che cuce su di sé un partito politico sono solo alcuni dei paradigmi con cui Silvio Berlusconi è stato raccontato, attaccato, elogiato.

Per quanto l’esperienza trentennale di Forza Italia, declinata in varie formazioni come La Casa delle Libertà e il PdL, abbia risucchiato tutte le cronache storico-politiche degli ultimi anni, il lascito più interessante e moderno di Silvio Berlusconi resta quello televisivo.

All’alba degli anni Ottanta, si consuma una vera e propria rivoluzione di costume: l’ossessione per la mobilitazione permanente perde di consistenza, l’individuo riemerge nella sua sete di auto-rappresentazione e non accetta più di stare al seguito di un “gruppo”, di una “classe”. Dal punto di vista televisivo, la risposta berlusconiana a questo grande rovesciamento delle parti non mostra sin da subito quei connotati sommariamente liberal-conservatori che pure le sono propri.

Berlusconi offre piuttosto a tutti gli italiani un ipertrofico specchio in cui scambiare messaggi di cui conta più l’estetica che il contenuto. In questo, la sua impresa tradisce un know-how che nessuno degli altri “giganti” dell’imprenditoria italiana, a cominciare dal suo eterno rivale Carlo De Benedetti e dall’avvocato Agnelli, riuscirà mai a eguagliare.

Quando le telecamere di Canale 5 si accendono per la prima volta, la rete privata non ha ancora il permesso di emettere in diretta. La Fininvest e le agenzie a essa ancillari come Publitalia, infatti, lo conquisteranno attraverso un sottile e minuzioso mercanteggiamento con un “amico di famiglia”, Bettino Craxi.

Ma nel 1981, questo conta relativamente: Maurizio Costanzo registra Buona Domenica vestito come all’epoca si usava nel giorno della festa, e riesce a far traballare una colonna portante del catodo quale Domenica In. Non appena, poi, arrivano i Decreti Berlusconi, gli italiani si rendono conto che il Cavaliere è in grado di egemonizzare la loro quotidianità, svegliandoli la mattina presto con il rullo di notizie di Prima Pagina, accompagnandoli la sera o il fine settimana a fare compere alla Standa e trattenendoli al teleschermo, anche solo per il Milan dei record, una squadra che – rilevata in punto di morte – diventa un asso temibile del calcio italiano, grazie al talento innato di Van Basten, Baresi e Costacurta.

Lo scopritore di talenti, però, non si accontenta. Dopo Mike Bongiorno, Raimondo Vianello, Corrado e Maurizio Costanzo, le frequenze di Mediaset solleticano – fra gli altri – Enrica Bonaccorti, Marco Columbro, Gerry Scotti. Sempre in bilico fra il ruolo di imprenditore visionario e quello di parvenu col capello a riporto e il bavero da boss del mattone, Berlusconi assurge a padre e decano del tele-populismo, che controbilancia con iniziative importanti: recluta, per esempio, colui che diventerà nientepopodimeno che il miglior news anchorman italiano, Enrico Mentana, forse memore del prestigio riscosso con l’acquisizione del “Giornale Nuovo” di Indro Montanelli.

Laddove Sua Emittenza fallisce, invece, è nel tentativo di portare il suo modello di televisione commerciale al di là delle Alpi: Berlusconi ci prova, inventa la “télévision beaujolais” e si presenta a François Mitterrand, che lo sostiene, e a tutti i francesi come “le plus Parisien de tous les italiens”. Ingaggia un confronto azionariale e quasi personale con Robert Hersant e non trova grande sintonia neppure con il suo successore, Jean Luc Lagardère. Quando La Cinq – mirabolante ricettacolo televisivo di starlette, quiz assurdi e spettacoli surreali – sanzionerà il proprio fallimento, infatti, Berlusconi ne sarà già fuggito a gambe levate.

Al debutto degli anni Novanta, i lumi della rivoluzione televisiva si fanno più fiochi. L’aver strappato lo scettro alla Rai monopolista non basta più. Il Cavaliere non batte in ritirata, e, anzi, cerca nuove sponde per reinventarsi. Compra la Mondadori e – sempre sintonizzato con le pulsioni del momento – in un primo momento corteggia anche i giudici di Mani Pulite: TV Sorrisi e Canzoni, un Télérama alla milanese, spara in copertina un Di Pietro versione casual. Panorama diventa il settimanale di riferimento del centro-destra. Il resto della storia è noto.

Quando Forza Italia approda sulla scena politica, diviene subito un oggetto di studio. Berlusconi si auto-rappresenta, infatti, in maniera del tutto inedita: non ha la prestanza cerimoniale del grande eroe nazionale, e d’altro canto non è un Hindenburg né un Eisenhower. Preferisce giocare sul concetto di self made man, di padre di famiglia spaventato dai comunisti come può esserlo qualsiasi italiano di fascia reddituale media o medio-alta.

Tutto, nella sua narrazione, è nuovo: dai vestiti al programma, dall’immagine alla meccanica comunicativa straordinariamente efficace. Il “partito-azienda” fonde privato e pubblico, immagine televisiva e presenza fisica, elettore e cliente. Per qualcuno è l’inizio di un “sultanato degradante” e l’assoggettamento dello Stato agli affari privati di un individuo, per altri una ventata di novità nel grigiume polveroso della dittatura partitocratica.

In effetti, i governi Berlusconi si distinguono per il rilievo pregevole di tante personalità di alto calibro che ne fanno parte – su tutte, Giuliano Urbani, Franco Frattini e Antonio Martino – ma anche come fucina di figure controverse o scandalosamente impresentabili. L’utopica rivoluzione liberale, però, si rivela ben presto illusoria.

Occorrerà comunque aspettare parecchio tempo perché maturi nell’opinione pubblica che il popolo italiano e le “rivoluzioni” sono due rette parallele. Berlusconi sa calarsi in ogni veste, quando le circostanze politiche lo rendono propizio: diventa “statista della Nazione” con il discorso di Onna e, quasi al contempo, il granitico vessillifero della lotta all’interventismo di una magistratura che non fa mistero delle proprie simpatie antiberlusconiane.

Qualcuno lo definisce come “il primo populista“: è una definizione solo parzialmente appropriata. Grande caratteristica dello storytelling berlusconiano non è, infatti, la demonizzazione di una generica “casta”, ma di categorie indigeste a buona parte della popolazione italiana: magistrati, giornalisti, autorità fiscali e amministrative, e a tratti anche insegnanti e uomini d’Accademia. Una tattica che, sotto un profilo squisitamente avalutativo, ripaga elettoralmente e – volenti o nolenti – ha una sua ratio.

Berlusconi conduce una politica estera di grande modernità, intesa come Realpolitik atlantista e d’interesse nazionale, ma, per il resto, il suo operato governativo non restituisce di sé che l’immagine di un almanacco di sogni mancati e promesse tradite, meno perdonabili dei vari, gravissimi errori.

Il suo narcisismo megalomane lo espone a inimicizie cementate – su tutte, quella con Nicolas Sarkozy – e lo catapulta anche ben oltre “l’orlo del ridicolo”: le corna, le tante battute su Hitler e i kapò, l’oscena etichetta di “culona inchiavabile” rivolta ad Angela Merkel, il bidet regalato al colonnello Gheddafi e le tende coi cammelli a Palazzo Chigi, per non parlare della vicinanza a Vladimir Putin, che non solo lui coltiva in chiave amicale, ma sicuramente assume nel suo caso connotazioni grottesche.

Sul suo rapporto con gli avversari, poi, il fu Cavaliere rinnova il proprio talento nel rivoluzionare i codici comunicativi: quando il Fatto Quotidiano pubblica articoli che lo descrivono come il demonio, lui telefona infuriato in redazione non per lamentarsi delle ingiuriose accuse, ma per invitare il direttore Antonio Padellaro a verificare tattilmente a Palazzo Chigi i “capelli finti” o i botulini al silicone che il giornale gli ha attribuito.

La politica si appropria del lessico televisivo e chi – contrariamente al Cavaliere – non sa manovrare quest’ultimo è condannato a diventare l’ennesimo, inefficace luogotenente antiberlusconiano. E la contestazione si fa puritana, giacobina, penetrante, ma colpisce quasi sempre a vuoto.

Insomma, lo slancio nazionalpopolare e l’eclettismo di Berlusconi diventano la bussola della Seconda Repubblica e il perno di tutta una stagione politica, al pari di quelle del Cavour, di Mussolini, di De Gasperi e di Andreotti.

Ciononostante, la rivoluzione politica non raggiunge il grado d’innovazione di quella televisiva. In tv, e solo in tv, il Cavaliere ha plasmato – quando non traumatizzato – una generazione d’italiani e, per certi aspetti, come ha scritto la Frankfurter Allgemeine Zeitung, è stato davvero “l’architetto” di un certo declino culturale italiano. Ma accanto a quello, lascia un impero da 40 mila dipendenti a eredi dalla personalità più defilata, informati alla dura lex del management e che lo piangono, insieme a tutta l’Azienda, come un papà. Così, sulla Torre Mediaset spunta la scritta Ciao, papà, che non può lasciare indifferenti.

In questo, ma non solo, ha fatto scuola, e ispirato migliaia di potenti che hanno fatto lo stesso, senza la sua folgorante simpatia. Ai tanti che, da sinistra, gli rimproverano la sua concezione del ruolo della donna nella società, Berlusconi non può che rispondere come un viveur dongiovannista: d’altra parte, le tante donne della sua vita – da Mamma Rosa a Veronica, passando per la figlia Marina – sono state il suo principale elisir di giovinezza.

Gli scandali fiscali, sessuali e di mafia dividono l’Italia, aprono una crepa nell’opinione pubblica, ma non scalfiscono il “suo” popolo, che si restringe di fronte ai più promettenti fenomeni salviniano e meloniano, ma gli resta intimamente legato. Istrionico, eccessivo e smodato, il Presidente prova a scommettere di nuovo sulla sua empatia, sull’ironia (e auto-ironia) e su un insindacabile carisma, mentre sorpassa la soglia degli ottanta. In parte vi riesce, trovando la redenzione che salverà Forza Italia da una vera e propria catastrofe elettorale.

Su molti altri piani, il risultato di questa nuova operazione sarà semplicemente un riepilogo di figuracce e sketch improbabili già proposti durante vertici istituzionali e conferenze stampa. Le sue barzellette diventano un fenomeno di massa, e, durante la campagna elettorale del settembre 2022, i giovani del Duemila lo accolgono persino su TikTok.

Il Cavaliere lascia un’Italia che gli somiglia come non mai, di cui ha amplificato la generosità, ma anche le più stravaganti contraddizioni. Per salutarlo, allora, vale la pena di provare a ipotizzare le sue prime battute all’ingresso dell’Aldilà.

“Buonasera, è qui quel paesino in provincia di Mediasèt?” (jingle pubblicitario di Canale 5)

“Mi consenta, ma perché lei non viene a lavorare sulle nostre reti?”

L’Angelo custode: “Ma veramente io avrei già un lavoro”

“Va bene, allora mi dica quanto costa uno slot, mi dica!”

L’Angelo custode: “Qui non trasmettiamo pubblicità”

“Cribbio, bisogna rimediare! Chissà che la rivoluzione liberale non mi riesca qui”

Per anni, chi è di destra ha visto in lui un idolo, ma anche un irremovibile ostacolo al cambiamento. Non ha scelto un delfino, che comunque non sarebbe stato mai in grado di raccogliere appieno il suo testimone. Non mancherà il tempo per parlare di scenari futuri. Mancherà, invece, il Cavaliere. A chi più e a chi ancor di più. Perché di Berlusconi ne nasce uno ogni mille anni. Purtroppo e per fortuna.

LASCIA UN COMMENTO

Your email address will not be published.