Una nuova mappa del DNA umano

1 Luglio 2023

Esperimenti in Cuffia – Episodio 1

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Sulla prestigiosa rivista Nature, è stato da poco pubblicato uno studio davvero importante, che ci permette di osservare da vicino le differenze presenti tra i DNA di individui che arrivano da diverse parti del mondo. Però, di DNA e geni si sente parlare molto spesso, quasi come se sapessimo già tutto, quindi come mai questo studio è così importante?

Per capirlo, possiamo partire dagli anni in cui si scoprì che i geni contenuti nel DNA erano quelli che codificano per i tratti biologici delle specie viventi, compresi, naturalmente, gli esseri umani. Di geni già se ne parlava prima in realtà, ma è solo negli anni Sessanta che si capì il loro legame col DNA.

Questi geni non sono altro che delle sequenze di basi azotate, ovvero i mattoncini che compongono la molecola stessa del DNA, e che possono essere letti come se fossero delle lettere. L’idea, quindi, era molto semplice: se possiamo leggere queste lettere, possiamo finalmente scoprire i segreti del DNA e capire il collegamento fra la genetica di un individuo e le sue caratteristiche biologiche, come per esempio il rischio di sviluppare determinate patologie.

Questo portò quindi a un notevole sforzo collettivo mirato a sequenziare, ovvero leggere, il DNA umano nella sua interezza, cosa che sfociò nella pubblicazione, nei primi anni 2000, della prima sequenza del genoma umano della storia. Tuttavia, non era propriamente completa, perché a causa dei limiti delle tecnologie usate all’epoca, mancava circa il 10% del DNA, che non era un 10% casuale, ma riguardava regioni del DNA con funzioni molto specifiche e che tuttora continuiamo a studiare.

Dopo circa altri vent’anni, queste lacune vennero finalmente colmate, anche grazie naturalmente all’incredibile miglioramento che subirono le tecnologie usate per sequenziare il DNA, oltre che a una migliore capacità di analizzare dei dati. A livello computazionale, infatti, queste analisi sono particolarmente laboriose e complesse.

Arrivati qui, si potrebbe pensare che il lavoro sia finalmente finito, dopotutto, abbiamo la sequenza dell’intero genoma umano, non ci resta che leggerla e capire che cosa ci dice. Ecco, questo è esattamente il problema che i ricercatori dell’epoca non presero in considerazione, anche in maniera giustificata, date le conoscenze che avevano a quel tempo.

Infatti, con la pubblicazione di questi genomi sempre più aggiornati, ci si rese conto pian piano di due grossi ostacoli: il primo, è che leggere il DNA non significa capirlo. Per dirla in maniera semplice, è un po’ come se avessimo aperto un libro convinti che fosse scritto in Italiano, e invece lo abbiamo trovato scritto in una lingua aliena. Quindi ora c’è un grosso sforzo della ricerca nel cercare di comprendere questa lingua, ed è quello che viene studiato nel campo dell’epigenetica, che però oggi non affrontiamo.

Il secondo ostacolo, invece, è rappresentato dal fatto che questa sequenza che abbiamo è unica, mentre sappiamo bene che il DNA di persone diverse non è uguale, quindi è molto difficile studiare le differenze biologiche tra esseri umani partendo però da un DNA che è uguale per tutti.

Questo nuovo studio pubblicato su Nature va proprio a risolvere buona parte di questo problema, principalmente, ma non solo, grazie all’utilizzo di DNA derivato da donatori e donatrici di popolazioni diverse sparse per il mondo.

L’altro grande passo in avanti è stato poi permesso anche dall’utilizzo di nuove tecnologie di sequenziamento, in particolare quelle chiamate, e qui mi prendo una licenza poetica nella traduzione in Italiano, “a lunga lettura“ che sono state utilizzate in combinazione con tecnologie possiamo dire più standard, ovvero quelle “a corta lettura“. Entrambe fanno parte delle tecnologie di Next Generation Sequencing, ovvero il sequenziamento di nuova generazione, ma mentre i protocolli più standard riescono a leggere solo al massimo qualche centinaio di basi alla volta, quelli a lunga lettura arrivano anche a decine di migliaia di basi.

Il vantaggio di questo approccio è che da un lato vengono accumulati più dati di lettura, permettendo quindi di avere maggiore confidenza che la lettura stessa sia corretta; dall’altro, avere questi frammenti molto lunghi permette di assemblare la sequenza finale più facilmente. Mettere insieme la sequenza di un genoma infatti è un po’ come fare un puzzle, dove i pezzi sono le sequenze di DNA che i macchinari che usiamo per sequenziare ci restituiscono. Con le tecnologie a lunga lettura è come se i pezzi del puzzle fossero meno numerosi e più grossi, permettendoci quindi di capire sia più facilmente dove vada messo quel pezzo, ma anche di distinguere più facilmente se quel pezzo appartiene a un puzzle oppure ad un altro. Mentre invece, con pezzi più numerosi e più piccoli, questo lavoro diventa molto più difficile e in alcuni casi proprio impossibile.

Il risultato è quindi una mappa del genoma che finalmente ci mette a confronto sia le parti uguali e conservate del DNA, ma anche soprattutto quelle che differiscono più comunemente tra questi individui.

Questa mappa è stata paragonata alla mappa della metropolitana di Londra, dove ci sono tratti in comune e poi degli snodi dove si trovano queste differenze, che possono essere basi diverse, oppure basi aggiuntive, basi mancanti, o addirittura sequenze messe al contrario.

Cottonbro studio – Via Pexels

Come accennato prima però, vedere queste differenze non significa automaticamente capirne la rilevanza biologica, ma l’importanza dello studio riguarda anche questo punto: per studiare e capire il nostro DNA, infatti, dobbiamo prima conoscerlo, perché se queste differenze non le vediamo, non possiamo nemmeno studiarle.

Grazie a questi risultati, quindi, nei prossimi anni miglioreremo la nostra capacità di interpretare il nostro genoma e anche quella di trovare informazioni utili sia per la nostra conoscenza di base dell’essere umano, ma anche per applicazioni che riguardano magari prevenzione e terapie.

Finiamo poi con un piccolo appunto che riguarda il tema genetica e popolazioni. Per quanto sia sotto gli occhi di tutti che gli esseri umani hanno tratti molto diversi fra loro, questo non significa che il DNA possa definire delle razze e che queste razze esistano.

Sono stati fatti studi su questo tema, che non affronteremo nello specifico, che hanno dimostrato che la distinzione in razze negli esseri umani non funziona. Questa classificazione viene usata in campo medico e di studi di popolazione, ma principalmente per convenzione sulla base di alcune caratteristiche. Il che significa che è una classificazione molto imprecisa e che ha senso usare solo in circostanze specifiche e ben controllate. Non è una classificazione che ha un valore biologico intrinseco, diciamo.

Ovviamente, anche se fosse, qualsiasi razza sarebbe parte della specie Homo sapiens e in quanto tale, quindi, uguale a tutte le altre sia dal punto di vista della dignità che di quello dei diritti.

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