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VIAGGIO TRA I SIMBOLI DELLA DISCORDIA CON GABRIELE MAESTRI

20 Gennaio 2022

La politica italiana ci regala da sempre un florilegio di simboli partitici che rispecchiano un Paese frammentato e litigioso, in cui dividersi è quasi sempre più conveniente che unire. Molti cittadini, ma anche molti osservatori, disincantati hanno rinunciato a rincorrere tutti i cambiamenti che ogni partito più o meno rilevante apporta. Tenerne traccia però è importante perché ci permette di ricostruire come è mutato il quadro politico, quindi i governi e quindi la vita di tutti i cittadini.

In questo senso bisogna elogiare il lavoro di Gabriele Maestri, costituzionalista, giornalista e animatore del sito I simboli della discordia. L’archivio presente nel sito è immenso, ripercorre tutta la storia repubblicana e spazia dai grandi partiti storici alle piccole realtà che hanno provato a emergere.

Da cosa è nata questa sua così intensa passione per i simboli dei partiti?

Giorgio Gaber diceva che “ognuno ha l’infinito che si merita”, io aggiungo che ognuno ha la vita che si merita evidentemente! (ride) Da piccolo gli altri bambini giocavano con milleduecento giocattoli, io mi ricordo di essere stato attirato dai simboli dei partiti in televisione.

Un interesse nato prestissimo quindi…

Ho un ricordo netto delle elezioni del 1987, ai tempi avevo quattro anni. In televisione si vedevano già a colori, diversamente da quanto accadeva sulle schede. Era l’anno in cui i simboli avevano un certo peso per due motivi, uno generico e uno particolare. C’erano state molte candidature non politiche, pensiamo a Gino Paoli, Josè Altafini e Paolo Villaggio. I partiti e i loro simboli, dunque, avevano più risalto anche grazie a quelle figure. Il motivo specifico invece è collegato alla visibilità che, anche grazie a Cicciolina, ebbe la “rosa nel pugno” del Partito radicale. È il primo simbolo che io ricordi nitidamente.

E continuato a livello accademico, giusto?

Sì, Sì, questo interesse è rimasto lì. Quando ho iniziato ad accarezzare l’idea di fare ricerca mi venne l’idea: perché non occuparsi dei simboli dei partiti? Quasi nessuno se n’era occupato massivamente, soprattutto sul piano giuridico, quindi presi quella strada. Ho iniziato a produrre pubblicazioni, inclusa la prima monografia chiamata I simboli della discordia e da cui è nato l’omonimo sito nel 2012. Lì ho potuto aggiornare il materiale e arricchirlo degli aspetti più politici e umani, liti furibonde comprese. Da lì è nato il secondo libro, il più divulgativo,Per un pugno di simboli.

I simboli politici caratterizzano tutti i Paesi oppure ci sono delle differenze?

I simboli sono una peculiarità meno diffusa di quanto si pensi. In molti paesi non esistono o comunque non si usano sulle schede, come in Germania e negli Stati Uniti. L’asinello e l’elefantino, con cui oltreoceano si identificano democratici e repubblicani, sono in realtà di derivazione satirica. Le schede solitamente contengono solo testo, non hanno nessuna immagine. L’uso dei simboli è molto più frequente nei paesi in cui c’è un analfabetismo diffuso. In Italia sono stati introdotti quando si è introdotto il suffragio universale maschile e votavano per la prima volta gli analfabeti, da allora non si è smesso di usarli.

Come si è evoluta la simbologia dei partiti?

I simboli ultimamente sono molto scaduti, non comunicano più niente perché in fondo non esistono più. Così come per la semiotica, il significante è cosa vedi, il significato è cosa sta dietro o dentro. Uno scudo crociato, una fiamma, una bandiera con falce e martello erano la carta d’identità dei partiti ed esprimevano un significato. Il contrassegno – cioè il modo in cui quei soggetti erano raffigurati – invece era il significante. In tempi più recenti quelli che chiamiamo simboli sono in realtà quasi sempre basati soprattutto su un lavoro di lettering, come quello pur ben studiato di Azione.

simbolo azione

Silvio Berlusconi diceva che “se il messaggio ci mette più di tre secondi ad arrivare, non è chiaro o è sbagliato”. Non a caso, la bandierina tricolore di Forza Italia, per come è stata reinventata da Cesare Priori, è stata l’ultimo vero simbolo, insieme all’Ulivo di Andrea Rauch. Entrambi erano riusciti a richiamare un progetto e a comunicare le sue idee.

Graficamente però qualche simbolo realizzato bene c’è ancora, non trova?

I simboli graficamente ben fatti ci sono ancora, per esempio su quello di Più Europa, come sulle varie campagne del partito, Stefano Gianfreda ha fatto un bel lavoro. In generale, però, i simboli più recenti assomigliano decisamente a loghi o marchi commerciali, che puntano più sul marcare le differenze rispetto agli altri piuttosto che definire una propria identità. Un discorso a parte va fatto per quelli che riprendono vecchi fregi di partito, come Alberto da Giussano per la Lega o la fiamma tricolore missina per FDI.

simbolo Più Europa

La tendenza al frazionismo è una caratteristica italiana o c’è anche negli altri paesi europei?

Sicuramente c’è qualcosa di particolarmente italiano, nel senso che in Italia accade più che altrove e con caratteristiche che altrove non ci sono. Tuttavia, non è che in altri paesi questo fenomeno non esista; il punto è che spesso quelle culture non premiano le scissioni. Ad esempio, nella Camera dei comuni britannica sono presenti ben 11 partiti, ma il sistema elettorale maggioritario puro disincentiva il frazionamento. Un partito di minoranza che voglia ottenere un seggio deve comunque ottenere la maggioranza dei voti almeno in un collegio, arrivare secondi in tutti i collegi uninominali significherebbe buttare di fatto tutti i voti ottenuti. Le minoranze che entrano contano comunque relativamente poco, tranne quando le maggioranze non sono nette e occorre cercare altri sostegni.

Da cosa dipende questa peculiarità allora?

L’Italia repubblicana è nata con il proporzionale e di fatto mi pare che continui a ragionare così, almeno in certi ambiti. Non di rado capita che in politica prevalgano gli elementi di divisione rispetto a quelli che uniscono, a volte anche dettati da incompatibilità personali. Si finisce così per portare avanti vari progetti diversi, magari nello stesso campo politico. Credo che l’area liberale ne sappia qualcosa. Può sembrare irragionevole e probabilmente lo è, ma dobbiamo tenere conto che la politica, anche negli aspetti che non ci piacciono, in fondo ci assomiglia.

Anche la leggi elettorali hanno giocato un ruolo rilevante?

Sì, a volte anche le leggi elettorali hanno avuto un loro peso. Basti pensare alla norma del Porcellum che garantiva l’elezione alla Camera, per ciascuna coalizione che aveva superato il 10%, anche alla migliore lista rimasta sotto il 2%. Anche altre norme, però, non hanno scoraggiato le scissioni. Nel 2008 e nel 2013 le liste di PdL e PD contenevano non pochi candidati anche di altri partiti, per garantire loro il “diritto di tribuna”. Una volta eletti, questi spesso hanno tenuto a far emergere la loro natura diversa e hanno agito da “battitori liberi”, come pure gli esponenti di altri partiti; a questo si sono aggiunte le scissioni nate in certe fasi politiche, magari dimostrando che quei nuovi, grandi partiti erano tutt’altro che omogenei. Anche per questo sono nati gruppo e componenti autonomi, in base a ciò che i regolamenti parlamentari consentivano.

Ci sono differenze tra i motivi che promuovono il frazionamento delle diverse culture politiche?

Capita tuttora che si litighi per ragioni ideali o ideologiche, o almeno per quello che ne resta. A sinistra capita ancora spesso, con punte di dissidio che non hanno eguali, visto che ci si contrappone per ragioni ideali pur stando dalla stessa parte. Il numero di partiti che si richiamano al comunismo e sfoggiano qualche forma di falce e martello è notevole e il quadro negli ultimi anni non si è affatto semplificato.

Non è sempre tutto idealismo però…

Si litiga anche quando si cerca di ridare vita ai vecchi partiti, spesso scontrandosi su quale sia la via più corretta per ottenere quel risultato. La lotta intestina tra i vari gruppi che ritengono di rappresentare la Democrazia cristiana ne è un perfetto esempio. In altre aree, inclusa quella liberale, oggettivamente si richiamano quasi tutti alle stesse idee, eppure restano in piedi tanti progetti politici distinti. Un tempo c’era un partito di riferimento, come il PLI, che aveva una sua forza e una sua consistenza, mentre ora spesso ci si aggrega, ci si divide o si fonda qualcosa di nuovo, non di rado sulla base di rapporti personali.

Nel centrodestra vede un trend univoco?

Direi di no. Il centrodestra ha conosciuto sempre fasi alterne. Senza dubbio la figura di Berlusconi è stata a lungo un trait d’union per la coalizione, per lo meno quando Forza Italia o il PdL erano il primo partito della coalizione. Ora che non è più così, quel ruolo è più difficile, ma in passato l’ex Presidente del Consiglio ha garantito una maggiore coesione. In alcune fasi la coalizione è saltata comunque, salvo riuscire in seguito a ritrovare un coordinamento e a comunicare una certa unità.

Si riferisce al 2001 e al 2008?

Nel 2001, nel 2008 e in parte nel 2013 quell’area è riuscita a dare prova di compattezza, vincendo le prime due elezioni e “rischiando” di vincere la terza. Problemi e tensioni probabilmente non mancavano, ma in quelle fasi li nascosero sullo sfondo con successo, anche se poi sono tornati in primo piano in modo dirompente. Invece la sinistra, anche quando ha trovato un assetto politico-elettorale che ne poteva favorire e incentivare la coesione, ha finito per avere un costante equilibrio instabile. In ogni caso, come si vede, entrambi gli schieramenti hanno avuto i loro dissidi interni, anche molto duri e non sempre ricomposti.

Perché in Italia si moltiplicano i tentativi di imitazione dei partiti di altri paesi, si pensi al rapporto tra PD e Democratici statunitensi, alla definizione di Forza Italia come partito gaullista o alla ricerca del Macron Italiano, e non si cerca di costruire un’identità forte e propria?

A mio modo di vedere non è stato sempre così. Se penso alla prima fase repubblicana, credo che i vari partiti abbiano incarnato la via italiana alle rispettive culture politiche. Le loro ideologie erano diffuse in tutta Europa, ma in Italia, come negli altri paesi, erano declinate in modo particolare. Valeva tanto per i liberali quanto per i socialisti, tanto per i cristiano-democratici (o popolari) quanto per i comunisti. Non mancavano peraltro esperienze molto particolari e difficilmente paragonabili, a partire dal Partito radicale. Con l’avvento della Seconda Repubblica, sulla cui data di inizio peraltro non tutti concordano, l’abbandono precipitoso delle vecchie forme della politica e la logica maggioritaria ci hanno fatto rivolgere lo sguardo ad altri paesi. A quel punto, purtroppo, si è iniziato a copiare molto di più, non per forza in modo fedele, né soddisfacente…

Quali sono i due simboli più belli a suo avviso?

È molto difficile fare una graduatoria e sceglierne solo due per tutto il periodo repubblicano. Ad ogni modo ritengo che la rosa nel pugno sia molto bella, e non solo per questioni affettive. Non è una creazione italiana, visto che è stata mutuata dalla Francia. Marc Bonnet l’aveva disegnata per il Partito socialista francese e, in seguito, nel resto d’Europa è stata appannaggio dei socialisti, mentre in Italia l’hanno adottata i radicali, in modo anche piuttosto rocambolesco. Venne affrontantata tra l’altro una causa con l’autore del segno, cui non era stato chiesto il consenso. L’idea era di rappresentare con quel simbolo, per riprendere un concetto caro a Mitterrand, “la forza tranquilla”: la fermezza del pugno conviveva con la dolcezza della rosa riformista e rifomatrice.

Copyright: Lista Marco Pannella

Dal punto di vista storico-politico acquista particolare valore il primo simbolo con garofano del PSI disegnato da Ettore Vitale prima delle elezioni del 1979. È stato il primo tentativo di recuperare come emblema del partito un fiore storico del socialismo, mettendo in secondo piano i segni precedenti, cioè la falce, il martello, il libro e il sole, senza farli ancora sparire. Non è stata un’operazione semplice, ma fu pensata, negoziata ed ebbe una grande rilevanza. Ai tempi cambiare simbolo era un passaggio importante, dall’enorme peso politico e ci si confrontava profondamente su questo, arrivando anche a scontrarsi. Cambiare simbolo allora significava mutare idea, non era un’operazione di marketing.

Ce n’è anche uno della storia di destra che vale la pena ricordare oltre alla classica fiamma tricolore?

Il terzo simbolo che cito, allora, appartiene alla destra e in effetti non è stato fortunatissimo, ma credo che meriti una menzione e mi sostiene il fatto che periodicamente c’è chi propone di recuperarlo. Nel 1977 si consuma una scissione nel Movimento Sociale Italiano, teso tra posizioni radicali e altre più tradizionalmente conservatrici. Viene fondata così Democrazia Nazionale per mano dei più “moderati” e di alcuni che avevano militato nei partiti monarchici. Come simbolo viene scelto un doppio nastro, rosso e verde, su sfondo bianco, con tanto di stelle intorno. È stato probabilmente il primo tentativo di un partito conservatore di darsi un emblema non riconducibile all’iconografia tradizionale della destra italiana, lontanissimo dunque dalla fiamma tricolore. L’esito elettorale è stato deludente, ma per quel periodo la scelta è risultata coraggiosa e non banale, per cui il simbolo merita di essere ricordato.

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