Recep Tayyip Erdoğan, attuale presidente della Turchia - via Wikimedia Commons

in Turchia ci saranno le “elezioni del secolo”

18 Aprile 2023

Il prossimo 14 maggio i cittadini turchi saranno chiamati alle urne per rinnovare il parlamento ed eleggere il prossimo presidente della Repubblica. Chi ha conoscenza di questo Paese e dell’uso politico della sua storia sa bene quanta rilevanza venga attribuita al suo interno ad anniversari e ricorrenze, che, al di là del significante collettivo, assumono diversi e talvolta contrastanti significati a seconda della parte politica cui si appartiene.

Le coincidenze della Storia vogliono che proprio l’anno in cui si celebra la più attesa di queste ricorrenze, i primi cento anni di vita della Repubblica, sia anche quello in cui si svolgeranno delle elezioni che già promettono di caratterizzare fortemente il “secondo secolo” (İkinci Yüzyıl, nella dizione di uso comune in Turchia).

Non si competerà solo per la conquista del prossimo mandato presidenziale e della maggioranza parlamentare, ma anche per la definizione della forma di governo stessa, del modello di società, e del futuro stesso della democrazia in Turchia.

Stato della democrazia, dell’economia, della società in Turchia

L’AK Parti (o AKP, Partito della Giustizia e dello Sviluppo) di Erdoğan governa la Turchia ininterrottamente dal 2002. Nel suo primo mandato di governo seguì un’agenda riformista, democratica, di promozione dei diritti sociali e politici, europeista. Dopo un decennio (gli anni ’90) segnato da profonde crisi politiche ed economiche, l’AKP portò stabilità, riscatto sociale per alcune categorie, crescita e aumento generalizzato del benessere. I primi anni al potere di Erdoğan furono caratterizzati da numerosi successi: dall’ottenimento dello status di candidato all’adesione all’Unione Europea, alla conquista della presidenza della repubblica da parte del primo politico islamista della storia turca (Abdullah Gül dell’AK Parti, appunto), all’approvazione di significative riforme costituzionali a tutela delle istituzioni civili dalle ingerenze militari. Proprio all’apice di questo percorso, iniziò la fase discendente della parabola democratica dell’AKP, scandita da eventi quali la soppressione violenta del movimento di Gezi Parkı nel 2013, l’escalation di purghe, censure, repressioni realizzate durante il prolungato stato di emergenza che seguì il fallito golpe del 2016 e la trasformazione della Turchia in una repubblica (super)presidenziale nel 2017, che consegnò ampissimi poteri al solo capo dello Stato. Il centro di ricerca “V-Dem” segnala come dal 2005 in poi sia iniziato un percorso di forte indebolimento delle istituzioni democratiche e della qualità della democrazia che non si è ancora arrestato. Secondo il report annuale del think-tank “Freedom House” , la Turchia ha fatto registrare il quinto maggior indice di declino delle libertà negli ultimi dieci anni (peggio di lei solo Libia, Nicaragua, Sud Sudan, Tanzania) e la classifica ormai dal 2019 come “Not Free” (non-libera). La comunità accademica internazionale concorda nel definire la Turchia non più come una democrazia, ma come un “autoritarismo competitivo”. Nonostante la restrizione di diritti e libertà e lo smantellamento dello stato di diritto, l’AKP, sostenuto soprattutto dalle buone performance economiche, ha continuato a ottenere un grande successo elettorale, sfiorando il 50% nel 2011 e nel 2015 con un’affluenza alle urne mai inferiore all’83%. Inoltre, da quando l’elezione del Presidente della Repubblica è diventata diretta nel 2014, Erdoğan ha sempre vinto al primo turno conquistando oltre la metà delle preferenze (52% e 53%).

Le chances per l’opposizione

Nonostante questo quadro, l’opposizione nella politica e nella società guarda con fiducia alle elezioni del 14 maggio. Sebbene rimanga stabilmente il primo partito, l’AKP ha vissuto negli ultimi anni una flessione nei consensi: nelle elezioni del 2018, in cui ha preso il 42% (7% in meno delle precedenti), ha perso voti in 873 distretti elettorali su 973. Inoltre, nelle ultime elezioni locali, ha registrato la sua prima sconfitta; sebbene solo parziale (ha comunque vinto nella maggior parte delle città e dei consigli comunali), questa sconfitta ha una enorme rilevanza politica ed economica, dal momento che ha riguardato 8 delle 10 maggiori città turche, comprese le metropoli di Izmir, Ankara, e soprattutto Istanbul – che da sola conta il 20% degli abitanti della Turchia e più di un quinto del suo PIL.

L’AKP, inoltre, ha dovuto fare i conti col crescente malcontento dovuto al peggioramento delle condizioni economiche. Dal 2018, l’economia turca sta attraversando una pesantissima crisi caratterizzata dal tracollo del valore della lira turca, che rende sempre più costose le importazioni, in un Paese la cui bilancia commerciale è storicamente negativa, e da un’inflazione galoppante che ha toccato picchi dell’85% secondo le stime ufficiali, ma che, secondo le rilevazioni del Gruppo di Ricerca sull’Inflazione, composto da accademici ed economisti indipendenti, avrebbe raggiunto il 181%. Sempre più cittadini turchi hanno iniziato ad attribuire le responsabilità al governo, che non ha saputo e talvolta deliberatamente voluto porre un freno a questi problemi: il presidente Erdoğan si è più volte opposto all’aumento dei tassi d’interesse necessario a porre un freno all’inflazione, licenziando i membri dell’esecutivo e i presidenti della Banca Centrale di Turchia non d’accordo con lui (ben 4 tra il 2019 e il 2021). Da segnalare inoltre una misura presa dalla medesima istituzione nel mese di febbraio: un netto taglio dei tassi d’interesse, a seguito di un lieve miglioramento della situazione inflattiva e della grave emergenza costituita dal terremoto fra Turchia e Siria. In aggiunta a ciò, in aiuto di Ankara è venuta Ryiad: più di 5 miliardi di dollari sono stati depositati attraverso l’agenzia governativa “Saudi Fund for Development” nelle casse della banca Centrale Turca.

Oltre all’economia, a dare speranze di vittoria sull’AKP è il buon successo del coordinamento tra i partiti di opposizione. Riuniti nel c.d. “Tavolo dei Sei” (Altılı Masa), alcuni di essi hanno promosso la creazione di un campo largo tra forze politiche anche distanti tra loro, mirante a conciliare (helalleşmek) le porzioni di società che esse rappresentano, per contrastare la crescente polarizzazione, e a impegnarsi alla realizzazione di riforme che rafforzino la democrazia e lo stato di diritto, per smantellare il presidenzialismo illiberale creato intorno a un leader populista e autoritario. Il principale artefice di questo progetto è Kemal Kılıçdaroğlu, leader del maggior partito d’opposizione, il Partito Repubblicano del Popolo (CHP: partito fondato nel 1923 da Atatürk), e candidato a sfidare Erdoğan alle presidenziali. L’Alleanza della Nazione (Millet İttifakı), prodotta del coordinamento di questi partiti, si è già misurata elettoralmente, portando i candidati del CHP alle già citate vittorie nel 2019, in particolare con Mansur Yavaş ad Ankara ed Ekrem İmamoğlu a Istanbul, che oggi corrono come candidati vicepresidenti, Una carica puramente simbolica, dal momento che non esiste un vero e proprio ticket elettorale come ad esempio negli USA, con Kılıçdaroğlu. Rispetto ad allora, la Millet İttifakı si è ulteriormente allargata, e Kılıçdaroğlu si è assicurato il fondamentale sostegno del Partito Democratico dei Popoli (HDP), che domina elettoralmente le aree a maggioranza curda nel Sud-Est del Paese. 

Un risultato non scontato

Nonostante i sondaggi sorridano a Kılıçdaroğlu, l’esito delle elezioni è tutt’altro che scontato. Opporre a una figura populista, aggressiva, e polarizzante come Erdoğan una dallo stile conciliatorio e pacato come Kılıçdaroğlu può portare (e ha già portato) dei vantaggi in termini di allargamento del fronte dell’opposizione. Tuttavia, Erdoğan è un personaggio carismatico, energico, e capace di esaltare le folle: qualità che ha sempre sfruttato al meglio nelle campagne elettorali, le quali, da quando si candidò a sindaco di Istanbul nel 1994, di fatto non ha mai perso. Inoltre, nonostante i sondaggi diano momentaneamente Kılıçdaroğlu in vantaggio nella corsa presidenziale, l’AKP rimane il primo partito, e l’Alleanza della Repubblica (Cumhur İttifakı) da esso guidata ha ancora ottime chances di ottenere la maggioranza relativa dei seggi. Uno scenario che veda la presidenza all’opposizione ma non il parlamento non è da escludere. Erdoğan può inoltre contare sui cosiddetti “vantaggi dell’incumbency”: la possibilità di utilizzare risorse statali per fini di ricerca del consenso, di godere di maggiore copertura sui media, etc. Tanto più che nel suo caso questi vantaggi sono ulteriormente amplificati dalla sua posizione di assoluto dominio sul sistema politico-istituzionale. Ora che, con la fine del Ramadan prevista per il 21 aprile, si entrerà nella fase più calda e intensa della campagna elettorale, sarà necessario seguirne gli sviluppi e i retroscena per riuscire a comprendere i risultati del voto del 14 maggio, qualunque essi siano. 

Infine, sarà interessante capire come gli sviluppi implicati da queste elezioni potranno intrecciarsi con le elezioni parlamentari greche che si terranno due mesi prima della fine del mandato del Presidente Mītsotakīs in data 21 maggio, e con le ulteriori vicende che stanno coinvolgendo l’intero medioriente e la penisola arabica. L’eventuale vincitore delle elezioni turche dovrà muoversi in un’atmosfera nuova e rovente: la situazione istituzionalmente e religiosamente tesa in Israele (e la prosecuzione del processo a Netanyahu), la pace fra Arabia Saudita e Iran – con Teheran che compie un passo storico invitando il Re saudita Salman bin Abd al-Aziz Al Saud a visitare la capitale iranica – e lo stato dei rapporti con la Grecia e la Nato nel quadro del Mediterraneo Orientale. Queste sfide daranno sicuramente molte grane al futuro vincitore delle elezioni turche, rafforzandolo o indebolendolo all’interno del già difficile contesto democratico ed economico turco. È proprio per queste ragioni che queste elezioni politiche potrebbero implicare una serie di cambiamenti notevoli all’interno del quadro delle relazioni mediorientali, oltre che nell’assetto istituzionale interno della Turchia: tale mutamento interno sarà poi decisivo nell’approccio di politica estera che potrà avere il futuro leader del Paese.

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