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MR. FINI, LA SOLITUDINE DEL NUMERO UNO

1 Luglio 2020

Gué Pequeno è tornato, a due anni dall’uscita dal suo ultimo disco ”Sinatra” e a dodici mesi dall’ultimo progetto, l’EP ”Gelida Estate”, e come sua abitudine ha fatto parlare di sè. Due anni fa un progetto ed il successivo sono un arco di tempo piuttosto lungo guardando alla carriera da solista dello storico membro dei Club Dogo: dal 2015 al 2018, infatti, le pubblicazioni sono state annuali, con la conseguenza che se inizialmente tale modalità ha soddisfatto la bulimia musicale del pubblico hip hop più giovane ed abituato a consumare velocemente ogni prodotto, successivamente ha portato ad un appiattimento del livello artistico ed ad un impigrimento della penna di Gué, visibile in alcuni passaggi di ”Sinatra”, che pur risultando soprattutto nel tempo un progetto piacevole e con alcuni picchi di assoluto valore (vedasi ”Doppio Whisky”, brano che fece scoprire al sottoscritto la voce di Mahmood prima del successo sanremese), non riusciva ad assumere l’aura di iconicità tipica degli album precedenti, quali ”Gentleman” e soprattutto ”Vero”.

Proprio nei confronti di quest’ultimo lavoro, ”Mr. Fini” si pone come sequel, riprendendone vari canoni quali la durata di gran lunga superiore al disco precedente, 54 minuti, la generale cupezza ed introspezione che è riscontrabile in numerosi passaggi dell’album e non ultima la copertina, in bianco e nero, la quale riprende e cita i canoni della tradizione cinematografica dei gangster movie americana: in questo caso, l’associazione immediata che i cinefili possono fare è sicuramente con ”Il Padrino II”, capolavoro del 1974 di Francis Ford Coppola.

Ma il disco com’è? E’ un viaggio. Certamente, al contrario del disco che ho cercato di analizzare in precedenza, ”Gemelli” di Ernia, mi sembra molto complesso e sterile analizzare le diciassette tracce una per una: risulterei inutilmente verboso e difficilmente riuscirei a comunicare quanto questo progetto sia stato per me difficile da capire appieno. Al primo ascolto, avvenuto all’una di notte, stanco, con tre birre in corpo ed in compagnia degli amici di una vita, siamo rimasti tutti interdetti. Bello eh, la qualità di scrittura a livelli altissimi, la credibilità nel dire determinate cose che suonerebbero ridicole dette da chiunque altro, tutto bellissimo. Ma manca qualcosa. Non riusciamo a comprendere il succo del discorso: cosa vuoi comunicare? Dove vuoi portarmi? Come si pone questa opera all’interno del mercato italiano? Sì, ci sono sicuramente dei pezzi clamorosi, dei banger incredibili, fra i quali mi sento di citare ”Medellin” con il featuring di Lazza, artista quest’ultimo in continua ascesa ed in forma smagliante che ci ha fatto ribaltare dalla sedie con degli incastri pazzeschi e delle punch line in equilibrio fra arroganza totale ed ironia, ”Ti Leviamo Le Collane”, brano street dalle sonorità perfettamente miscelate fra anni ’90 e contemporaneità, con la collaborazione dell’emergente Paky che condisce l’ignoranza di classe di Gué con una strofa che trasuda credibilità e con gli ultimi due versi che ci ha fatto urlare gasati come raramente ci è mai capitato prima oppure ancora ”Chico”, con Rose Villain, la quale offre un ritornello di qualità e talmente ”catchy” da fare il tragitto orecchie-cervello in pochi secondi, e Luchè, solita garanzia sulla strumentale e conferma ad alti livelli di uno dei sodalizi più produttivi degli ultimi anni, ma in mezzo a questi brani sicuramente immediati ed impattanti, ci risultava difficile trovare il senso di altri. Il disco presenta dieci featuring, tantissimi, alcuni dei quali sembrano annacquare il flusso di coscienza dell’artista protagonista: ”Parte Di Me”, con Carl Brave, per esempio, è un pezzo che è suonato immediatamente e terribilmente sciapo, sentito già altre mille volte, che passa dalla descrizione della vita di successo di uno alla narrazione dell’ennesima storia d’amore dell’artista romano, due strofe in cui è difficile trovare un filo conduttore, ed ancora ”Tardissimo”, canzone che presenta i featuring di Mahmood e Marracash, per il quale inutile dire quanto hype avessi, che si rivela una canzone d’amore con un ritornello che sicuramente porta freschezza al pezzo, ma sicuramente non risulta il progetto più memorabile fra i due artisti che hanno creato assieme quella pietra miliare della musica italiana degli ultimi venti anni che è ”Santeria”. Tale altalena di sensazioni rimaneva anche nei pezzi solisti. Ero interdetto, timidamente non entusiasta.

Tornato a casa a notte inoltrata con un lieve retrogusto di delusione in bocca, ricevo un messaggio da uno degli amici con cui ho diviso l’ascolto. Lo sta riascoltando. E va bene, chi sono io per lasciarlo solo? Traccia 1, ”L’Amico Degli Amici”. Play. Ed è iniziato un viaggio totalmente differente. Pur rimanendo alcune perplessità nei confronti dei brani sopracitati ed in altri punti del disco, come per esempio ”Giacomo” o ”Saigon”, che pur considerando una hit radiofonica destinata a sicuri successo e viralità non rientra pienamente nelle mie corde, ho apprezzato immensamente e compreso altre sfumature del disco. Pezzi come ”Immortale”, con un epico ed evocativo ritornello di Sfera Ebbasta, che mi ha portato dentro alle parole talmente tanto da farmi arrivare all’empatia totale con l’artista e persino a commuovermi, o ”Dem Fake”, con la collaborazione di uno degli artisti reggae più rinomati in Italia quale è Alborosie, che al primo ascolto era passata in sordina, si rivela un brano dalle sonorità non banali e ricercate, una perla che dimostra la versatilità del Guercio, hanno assunto un significato nuovo e mi hanno portato alla comprensione dell’obbiettivo artistico di questo disco: ribadire, se ce ne fosse ancora bisogno, che dopo venti anni di carriera ad altissimo livello, Gué Pequeno esiste ed è ancora il migliore nel raccontare una storia autobiografica di successo, nelle sue sfumature più superficiali fatte di donne, droga, eccesso ed opulenza, ma anche e soprattutto nei suoi lati più celati ed intimi, la mancanza di legami duraturi, i rimpianti del passato, l’essere vittima della fama, le notti in albergo passate nell’ansia, la solitudine del numero uno. Manifesto di questa ultima sensazione è racchiusa deliziosamente nel brano che conclude il disco, ”Ti Ricordi?”, in cui vi è una retrospettiva sugli aspetti che raramente l’artista aveva trattato prima, quali le sensazioni di un ragazzo che vuole il riscatto ammirando coloro che hanno avuto un riscatto sociale ed economico ad ogni costo, il rapporto conflittuale con il padre, la consapevolezza della sofferenza e del percorso fatto, fra gioie e dolori. ”Mr. Fini” è un kolossal, complesso e dai numerosi livelli di lettura, che deve essere ascoltato con attenzioni e scevri da qualunque pregiudizio nei confronti di una figura controversa quale è quella di Guè, sempre estremamente diretto e superbo nelle apparizioni pubbliche.

Il rapporto fra il cinema e la musica è sempre stato un elemento presente nella discografia e nella narrativa dell’artista milanese. Fin dall’inizio della carriera con i Club Dogo, la cui pietra miliare ”Mi Fist” prende il titolo dal film del 1995 ”Tokyo Fist” sostituendone la prima parola per personalizzarlo, la produzione musicale è differita rispetto ai canoni classici del rap italiano proprio per la narrazione estremamente ”pulp” della quotidianità delle periferie e delle strade di Milano: al contrario della ”vecchia scuola” e di altri emergenti dell’epoca (si parla ormai del lontano 2003), il gruppo di MCs formato, oltre che da Gué, dal produttore Don Joe ed il rapper Jake La Furia non ha mai cercato una descrizione pedissequa della realtà, ma è riuscito ad esagerarne i tratti senza scadere nella finzione o nella pacchianata, rendendo la musica estremamente cruda ed a tratti barocca, risultando così di estremo impatto, ponendosi come primo tentativo veramente riuscito di esportazione di canoni musicali e non solo dalla cultura del gangsta rap americano in un mercato mainstream. L’esagerazione in questo caso non è finzione, ma ti porta a riflettere e gioca sulle iperboli, come nel cinema abbiamo visto spesso fare a Quentin Tarantino. Anche nella carriera da solista tale elemento emerge, soprattutto nell’opera più centrata ed iconica del signor Fini, senza dubbio ”Vero”, disco che ebbe un successo inizialmente minore rispetto a quello aspettatosi dall’artista, ma che col tempo si è ritagliato uno spazio importante nel cuore dei fan ed ha insegnato a tanti come scrivere e come rappare, risultando oggi incredibilmente antesignano di parecchie mode che si sarebbero sviluppate negli anni successivi al 2015, anno di pubblicazione del disco.

E ”Mr. Fini” riesce, come da premesse, ad esserne il sequel spirituale diretto. Le atmosfere si alternano fra la solarità dei primi brani, che risultano molto descrittivi delle apparenze del successo, legati fortemente ad un immaginario street più classico, per poi con il passare delle tracce scendere in una spirale di malinconia, rimpianti ed introspezione, nel quale l’artista si spoglia di gioielli, tatuaggi e vestiti firmati per arrivare, tramite il suo immenso e comprovato talento, alla sua anima, tormentata e portatrice del peso di essere Guè Pequeno, un simbolo di riscatto e successo, che lavora continuamente per rimanere, grazie alla sua opera ed alla sua arte, non nel panorama musicale italiano, non ha bisogno di ulteriori dischi per questo, ma per rimanere nel senso più foscoliano del termine, lasciando per sempre un segno nel mondo con la sua musica. E malgrado le criticità che rimangono, che impediscono di considerarlo un disco perfetto (ma in fondo, quale opera d’arte lo è realmente?), ci riesce. Ed ancora una volta, Cosimo Fini ha provato a tutti di essere e rimanere un unicum nel panorama italiano, e malgrado la persona possa suscitare o meno simpatia (aspetto totalmente irrilevante), rimane una delle figure più importanti e capace di dare vita ad arte nell’hip hop italiano.

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