Uno dei leitmotiv del primo lockdown era: “Ne usciremo migliori”. Guardando, però, ad alcuni comportamenti e ad alcune tendenze in atto, sembra che la pandemia abbia reso molte persone peggiori. Le conseguenze potrebbero essere molto pesanti, per tutti.
La pandemia che, da quasi un anno, ci sta vessando col suo carico di sofferenze e di morti sembra aver tirato fuori, dalle persone, le migliori energie ma anche i peggiori istinti, le più basse pulsioni. Ha dato la possibilità a molti di reinventare il loro lavoro, ad atri di trovare forze nuove per superare le difficoltà, ad altri ancora di superare i limiti dell’agire normale e quotidiano, per il bene di tutti. Penso, per quest’ultimo caso, ai tanti medici, infermieri e sanitari in generale che si sono trovati schiacciati da turni massacranti, da situazioni di stress e stanchezza incomparabili. Sanitari che hanno saputo, comunque, fare al meglio – e di più – il loro lavoro. Come contraltare, però, a tutto questo c’è una schiera di persone – sempre più numerosa – che pare abbia trovato la soddisfazione principale in tre attività. Queste sono: l’aruspicina sui numeri della pandemia, la caccia all’untore – con relativa gogna – e la proposta di riduzione dei diritti per novax e covidioti.
Per quanto riguarda la prima attività, abbiamo avuto pregevoli esempi di essa a partire dalla fine del primo lockdown. A giugno c’era chi si impegnava – mai sulla base di evidenze e modelli scientifici – a predire quando sarebbe cominciata la seconda ondata, senza mai azzeccarci. C’era chi, con calcoli utili come quelli che vorrebbero dimostrare matematicamente l’esistenza di Dio, aveva previsto che il giorno tot avremmo avuto tot persone contagiate, tot altre in terapia intensiva, e così via. Naturalmente la stragrande maggioranza di queste previsioni si sono rivelate sbagliate e false. Anche perché l’epidemiologia, la virologia, la matematica e la statistica sono discipline serie, con regole stringenti e precise. Se si fanno le cose un tanto al chilo, senza conoscenze, le suddette scienze non si piegano al volere della finta cassandra di turno, bensì fanno fare ad essa la figura del pezzente. Ma poco importa: tali previsioni – serie e precise come quelle di certi siti meteo con le pubblicità di chat erotiche – non avevano che uno scopo, primo e principale. Tale scopo era dimostrare che, data la “troppa gente in giro” presto, prima del previsto, secondo i calcoli praticamente subito, saremmo ripiombati nella diffusione incontrollata del virus. Cosa che – beninteso – è avvenuta eccome, ma non è avvenuta solo qui e non è avvenuta nei tempi – spacciati per scientificamente certi – degli aruspici di cui sopra.
Fortemente connessa a questo primo diletto è il secondo hobby che molti han portato avanti già nella prima ondata: la caccia all’untore. Se prima i superspreader del morbo erano i runner, poi sono diventati i ragazzi della movida, poi i congiunti fuori regione e domani chissà. Tutte queste categorie, additate con severissima convinzione come portatrici del virus, sono state individuate dai nostri non sulla base di ricerche epidemiologiche ma di trasmissioni di dubbio gusto – che, come un uroboro, si alimentano della caccia stessa che la gente fa da sé – e di sensazioni ‘a pelle’. Precisiamo: che certe attività di quest’estate abbiano contribuito a far ripartire il contagio è indubbio, e tali attività bisogna cercare di vietarle o di limitarle al massimo. Ma il punto è un altro: si danno soluzioni semplici a problemi complessi. Si trova il primo colpevole – quello che per senso comune pare tale – e lo si assicura alla gogna, alla condanna unanime. Lo si fa augurandosi, magari, pene che in Europa abbiamo già visto. Pene che non vorremmo mai più rivedere, né mai più sentir citare a sproposito.
Legata a quest’ultimo aspetto è la terza delle suddette attività: la proposta di riduzione dei diritti. Quante volte ognuno di noi ha sentito dire, da qualcuno, che “i negazionisti non andrebbero curati”. O, magari, che “se ti ammali perché te ne freghi ti paghi le cure e risarcisci quelli che hai contagiato”? Ai più queste proposte sembreranno di buonsenso, magari anche doverose: il momento che viviamo è tragico, nessuno può commettere leggerezze, consapevolmente o no. Sempre più si fa strada l’idea che si possa – anzi, si debba – cominciare a pensare a forme di riduzione dei diritti per i novax o i negazionisti del covid. Beninteso: che essi siano pericolosi, ignoranti, vili è lapalissiano, tanto quanto la condanna che tutti dovremmo fare non di loro ma dei loro comportamenti e delle loro idee. Invece, come si suol dire, qui casca l’asino.
Gli estensori delle suddette proposte non comprendono o non vogliono comprendere il fatto che pure i novax, i covidioti sono cittadini. In quanto tali, sono titolari di diritti non riducibili sulla base delle loro condannabili e ripugnanti opinioni. Il loro diritto ad essere curati, e magari gratis se previsto dalla legge, non può essere negato a causa della più abietta delle loro condotte. Se siamo – e lo siamo – migliori di loro, li rispettiamo come cittadini con diritti pari ai nostri. Non ci divertiamo a ridurglieli a nostro piacimento. Anche perché, un domani, chi propone quanto sopra potrebbe diventare la vittima di un’arbitraria decurtazione dei suoi diritti. Certe proposte sono pericolose perché hanno in sé il germe del ‘precedente’. Sono come la dantesca “poca favilla”. Tutti, un domani, potranno utilizzare quel che è avvenuto oggi per renderci meno liberi. Potrebbero utilizzarlo per renderci meno tutelati al di là delle nostre opinioni, delle nostre inclinazioni, dei nostri gusti. Non è speculazione filosofica, ma storia. Scritta e riscritta.
Al fondo di queste attività, per chi le pratica vi è la costante necessità di sentirsi migliore degli altri, di giudicare il prossimo senza capirlo. Vi è la necessità di imporgli obblighi e condanne che sono dettate dall’emozione, la peggiore delle consigliere, quando non dal risentimento. È evidente che chi scrive condannerà sempre fermamente i comportamenti irresponsabili e fuori dalla legge. Altrettanto evidente è che, se lo facessero tutti, la pandemia (forse) scomparirebbe. Ma quest’ultimo è uno scenario irrealizzabile, che non tiene conto della più severa e certa delle condizioni: la complessità. Complessità del vivere umano e della gestione di un Paese che deve far fronte a una calamità sconosciuta alla quasi totalità della popolazione. Questa sfida epocale sarà vinta se resteremo uniti. Se dimostriamo di non perdere di vista i valori, i principi che ci hanno resi uomini civili. Quelle leggi che ci difendono dai soprusi capricciosi del sovrano di turno. Vorrei, a fine pandemia, con un mondo profondamente rivoluzionato, che tutto ciò non cambiasse, perché la strada del peggioramento è sempre allettante e in discesa. È moralmente necessario, doveroso resistere: per noi, per chi detestiamo, per il domani del quale tutti saremo partecipi.