Come inquadrare i fatti che stanno accadendo in America a seguito della morte di George Floyd? Come inquadrare coloro che scendono nelle piazze per manifestare? Ma soprattutto come inquadrare coloro che durante le manifestazioni hanno messo a ferro e fuoco le città americane?
Una questiona lessicale.
Si può parlare di una rivoluzione in atto negli Stati Uniti? Apparentemente no. A mancare sono alcuni tratti fondamentali di ciò che chiamiamo rivoluzione. Sebbene negli Usa stiano imperversando delle rivolte, a volte violente, e ci sia stata una mobilitazione internazionale in favore del movimento black lives matter non sembrano esserci dei capi politici o organizzativi, con delle proposte che potremmo definire strutturali. Non si parla di come risolvere il problema e con quali mezzi farlo, ma ci si limita a indicarlo. Sia chiaro che questa non è una stigmatizzazione di quello che sta accadendo, né si sta affermando che senza organizzazione non si possa manifestare per una causa. Sarebbe ottuso credere che agli albori della rivoluzione francese coloro che scesero in piazza avessero già le idee chiare riguardo al futuro, e tuttavia vi era un’ elitè politica e sociale che si è occupata di ripensare le strutture politiche della nazione. Ciò, per il momento, non sembra presente negli USA e ci consente di escludere il carattere rivoluzionario di ciò che sta accadendo in America. Forse che per avere una rivoluzione è necessario che ci siano dei capi? Non è necessariamente la figura del capo a fare la differenza, non tanto quanto il discorso prodotto dai capi della rivoluzione. Un tipo di discorso che supera il chiacchiericcio da social e che difficilmente può essere ridotto a uno slogan. Persino il celebre “i have a dream” di Martin Luther King jr. sempre più citato anche sui social, non si è lasciato imbrigliare sotto l’etichetta di slogan diventando e restando il manifesto di un’epoca e di un movimento effettivamente rivoluzionari, dove è stato cambiato realmente l’assetto sociale di un paese. Quello che sta accadendo in queste settimane in America è effettivamente un rivolta.
Ribellione.
Max Stirner, pseudonimo di Johann Caspar Schmidt , nella sua opera più importante L’unico e la sua proprietà opera una distinzione tra ribellione e rivoluzione
Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano, 1974, p.331
La rivoluzione ordina di creare nuove istituzioni, la
ribellione spinge a sollevarsi, a insorgere. Le menti della .rivoluzione si domandavano quale fosse la costituzione
migliore e tutto quel periodo politico è strapieno di lotte per la costituzione e di questioni costituzionali, anche
perché i teorici della società avevano allora un’inventiva
non comune per quel che riguarda le istituzioni (falansteri, ecc.). Ma il ribelle vuole liberarsi da ogni costituzione.
Ciò che ci importa di più di questa citazione è la successiva nota a piè di pagina. Dove viene detto che il termine ribellione (Empörung) è utilizzata nel suo significato letterale che è quello di sollevazione. Cosa ci dice Stirner, il teorico dell’individualismo e dell’anarco-individualismo? Ci dice chiaramente che a un ribelle importa sollevarsi, insorgere, percorrere una strada finché c’è una strada da percorrere. La rivolta, la ribellione, è il momento dell’azione e non quello della riflessione. Ancora una volta occorre far chiarezza. Per ribelle, colui che insorge, non si intende necessariamente qualcuno che attui devastazioni, bruci bandiere o distrugga statue. Quindi questa non è un’apologia della violenza. Lo stesso Stirner, a sorpresa, delinea come esempio di ribelle Gesù Cristo.
Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano, 1974, p.332
Egli
non era un rivoluzionario, come per esempio Cesare, bensì
un ribelle, non uno che rovesciava gli Stati, ma uno che
si sollevava. Per questo il suo principio era solo: « Siate
astuti come serpenti», che esprime la stessa cosa dell’altro principio, più specifico: « Date a Cesare ciò che
è di Cesare »; egli non conduceva alcuna battaglia liberale o politica contro l’autorità costituita, ma voleva,
incurante di quell’autorità e da essa indisturbato, percorrere la propria strada
Sollevarsi fa rumore, indubbiamente, e ogni ribellione, ogni sollevazione individuale o popolare è atta a far rumore. La voce di chi si solleva si fa più forte e così il passo di chi sta percorrendo la propria strada. Il ribelle, dunque, non è prima facie un vandalo, né un terrorista. Che Trump abbia messo al bando gli Antifa come terroristi denuncia la sua miopia politica, da un lato, dall’altro il suo bisogno di costruire un nemico interno che non siano le persone di colore che manifestano a fronte della barbara condotta della polizia americana.
Uno sforzo.
Lo sforzo che ci è richiesto da questa complessa sfida del presente è quella di chiamare le cose con il proprio nome e se questo nome non c’è cercarlo, inventarlo, ma solo dopo aver studiato il problema. Una parola come ribelle che ha con sé spesso un portato negativo in realtà riesce a dar conto riguardo a molte cose che stanno accadendo. La ribellione in atto non mette in discussione gli Stati, i Presidenti, ma è la presa di posizione di una voce che prima o poi inizierà a mettere in discussione Stati e Presidenti, a organizzare il cambiamento. Si badi che qui è detto organizzare, non imporre. Porsi all’ascolto, aprirsi al dialogo sembrerebbe la via migliore per evitare il vandalismo e la distruzione e addirittura per attuare una rivoluzione. Certamente qui intendiamo dire che chi deve porsi all’ascolto è il lato istituzionale coinvolto, lo sforzo, ce ne rendiamo conto, non è semplice ma la storia ci ha insegnato che nessun cambiamento politico è semplice. Anche l’aggettivo semplice può avere connotazioni di senso diverse. Noi lo utilizziamo come contrario di complesso. La politica, ma l’esistenza tutta, è densa di una complessità tale che non si lascia semplificare tanto facilmente e quando questo accade originano devastazione, totalitarismi, discriminazioni. Abbracciare la complessità e il dialogo è la nostra ipotesi per il futuro, chiedendoci inoltre: è preferibile una ribellione o una rivoluzione?
La questione è ben più che lessicale e quello che accade ora è un ribellarsi tanto come un tentativo di rivoluzione. Ribellarsi contiene in sè la radice di guerra e dunque coloro che scendono oggi nelle piazze stanno giustamente portando guerra, o meglio rispondono, ad una guerra che è stata loro dichiarata in molte forme nel passato. Allo stesso tempo sono rivoluzionari, non accettano lo stato di (non) diritto degli USA e vogliono sradicare le fondamenta di una società iniqua e ingiusta. La questione è ben più che lessicale, e dovrebbe esserlo, dicevo, perché oltre alle definizioni ci sono i corpi con la loro materialità e i loro bisogni e ancora più ci sono le menti, private della libertà di essere essere stesse libere di immaginarsi in posizioni di potere. Poi certo, possiamo decidere su definizioni varie che a volte danno sostanza alla forma, ma ora più che mai, dobbiamo abbandonare la torre d’avorio e guardare con occhi non nostri per scegliere come agire oltre i libri. Bisogna esattamente fare, e compiere scelte, non solo parlarne. Poi, certo, la questione diventa quali scelte, come, e chi dovrebbe legittimamente compierle e ancora prima, la questione è forse, la violenza trova spazio in questa richiesta di un mondo nuovo? Secondo me sì. Grazie per gli spunti.
Carissima lettrice, sono d’accordo sul fatto che la questione è ben più che lessicale. L’articolo non intendeva minimamente dire il contrario, infatti il titolo del paragrafo non conteneva la parola solo. Sul termine ribellione, stando alla radice latino-italiana sono perfettamente d’accordo con lei. Diversamente, e lo dico solo per rigore filologico, non di certo con intento polemico, con la parola tedesca usata dall’autore dove la traduzione più corretta sarebbe rivolta. Concordo con lei sulla questione della materialità dei corpi e delle menti che si battono per sradicare le fondamenta di una società iniqua, di questo se possibile tratterò in un altro articolo, non perché ciò che dica in questo di articolo escluda la questione ma, ancora una volta, per essere rigorosi. Per menti, mi scuso per la poca chiarezza da parte mia, intendevo menti organizzatrici, degli ideologi (tengo una riserva su questo termine, forse un’altra parola sarebbe più appropriata). Non credo assolutamente che coloro che stanno manifestando, a livello internazionale, siano privi di mente, di pensiero. Tutt’altro. Mi limito soltanto a dire che l’intento dell’articolo era sfruttare la posizione di Stirner proprio per chiarire che questo tipo di manifestazioni non hanno la finalità di distruggere, ma di farsi ascoltare e questo, inevitabilmente,porta del clamore. La ringrazio per aver letto il mio articolo e aver commentato, aprendo un sano dibattito e per gli ulteriori spunti di riflessione.
Gentile Pasquale, grazie per la risposta e i chiarimenti. Non volevo essere sterilmente polemica, spero questo lo abbia capito. Comunque, personalmente, credo ci sia un intento distruttorio, distruttorio e di seguente ricostruzione. Non mera sollevazione, ma propria volontà di modifica dello stato e per questo penso che leggere questi eventi attraverso e con Stirner forse non è adatto. La lotta è politica e critica lo status quo, ora più che mai. Le manifestazioni, almeno quelle sul suolo americano, per come le leggo io, non hanno intento solo comunicativo, non chiedono solo ascoloto, e neppure performativo, ma anche propriamente rivoluzionario. Non tutte forse, ma alcune. Poi certo, nelle strade e dalle strade nulla cambia quasi mai. E quindi il prendere le strade in sé non costituisce necessariamente cambiamento, non lo rappresenta, ma risulta principalmente atto comunicativo. Rimangono tuttavia atti politici di critica, di veemente contestazione. La questione forse per me è se è solo atto comunicativo o se in sé è rivoluzionario e ha l’obiettivo di sradicare le fondamenta di un sistema. Mi spiace essere così lunga, ma di disobbedienza mi occupo per ricerca e non voglio assolutamente suonare antipatica con i miei commenti, o sembrarle polemica (ad hominem) ma il suo interesse per questo tema e anche la sua gentile e puntuale risposta mi hanno coinvolta e forse sono arrivata ad essere forse un pochino verbosa. Grazie mille ancora
Gentile Elettra, innanzitutto non si preoccupi. Non è apparsa né sterilmente polemica né verbosa, sta sorgendo un interessante dibattito e questo mi fa solo piacere, spero di poterlo continuare in una maniera più comoda rispetto alla sezione commenti. Entrando nel merito della vicenda: io non mi occupo di disobbedienza come lei, quindi riconosco la mia ignoranza a proposito di ciò. Tuttavia un punto che mi viene da sollevare è questo: c’è un rapporto causa-effetto tra ribellione\rivolta e rivoluzione? Questa è una cosa che mi chiedo spesso. Stando a Stirner no, non c’è questa correlazione, perché appunto rivolta e rivoluzione sono momenti separati, qualitativamente diversi. Si può essere in disaccordo e, a scanso di equivoci, per me Stirner non è l’unico autore da leggere o da seguire: per l’articolo, anche con intento divulgativo, mi interessava parlare del suo punto di vista. Vedo però che siamo d’accordo sul fatto che le ribellioni sono atti di critica e di contestazione che lei giustamente definisce politici. Di nuovo, personalmente sono d’accordo con lei se intendiamo l’aggettivo “politici” con il seguente orizzonte semantico: politico è un atto che interessa a livello istituzionale l’intera società. Dove il focus è su istituzionale per evidenziare il portato rivoluzionario della questione, ovvero quello di un cambiamento radicale e possibilmente radicale che va a cambiare, dico per esempio, una costituzione o dei protocolli istituzionali (ancora per esempio: l’addestramento della polizia o il “defunding”). Diversamente, dico per esempio, non credo sia politico un atto di mutuo-aiuto come per esempio teorizzato dall’anarchico Malatesta che attraverso tale atteggiamento comunitario intende uscire dall’orizzonte politico. Certamente, per via negationis, potrebbe dirmi che anche negare il politico è un atto politico. Qui mi coglierebbe in fallo e non saprei ben argomentare una risposta contraria, mi limiterei a chiedere di mantenere l’attenzione sulla componente sociale. Il dibattito è ampio e ci sono moltissime posizioni che si potrebbero citare e devo ammettere di non avere una conoscenza così vasta e puntale, a quel punto rientrerei nel campo della mera opinione, sarei assertivo ed esprimerei giudizi di valore, cosa che, non è mia intenzione fare attraverso questo specifico blog. Un’ultima cosa che ci tengo a ripetere è che nessuna cosa è solo qualcosa: un atto come la rivolta può comunicare e diventare rivoluzionario anche solo comunicando e tuttavia lungi da me, e anche da Max Stirner, dire che rivolta=solo comunicazione. Rivolta è perseguire la propria strada, da soli, o in comunione. Su quest’ultima frase scriverò il prossimo articolo, cercando di operare una distinzione tra individualismo e comunitarismo, cercherò di prendere in esame anche la questione dei “corpi” così come intesa dalla fenomenologia, spero anche in quel caso di poter avere un sano dibattito con lei, anche solo per operare dei chiarimenti. Colgo l’occasione per scusarmi se nell’articolo ci sono dei punti poco chiari e fraintendibili, sarà mia premura migliorare nelle prossime occasioni. La ringrazio per i puntuali e graditi commenti.
Non ci sono punti poco chiari, assolutamente, ma è un articolo che dà spunto a riflessioni e commenti. Buona giornata.