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SALUTE PUBBLICA ED ETICA: CHI HA DIRITTO A COSA? (PARTE I)

Anche con la certezza tecnico-scientifica che il lockdown fosse la soluzione migliore per contenere la diffusione del covid-19, ci troveremmo comunque di fronte ad una questione filosofica di fondo: fino a che punto è legittimo per la collettività esercitare una pressione coercitiva sul singolo individuo?

Tra le tante questioni politiche che stanno testando—e continueranno a testare—la tenuta dei modelli socioeconomici ed istituzionali dell’Occidente, vi è il problema dei lockdown e delle limitazioni delle libertà individuali che ne derivano. Difatti, anche assumendo di avere la certezza tecnico-scientifica che il lockdown—o un altro sistema di coordinamento sociale—fosse la soluzione migliore per contenere la diffusione del covid-19, ci troveremmo comunque di fronte ad una questione filosofica di fondo: fino a che punto è legittimo per la collettività esercitare una pressione coercitiva sul singolo individuo che non ha intenzione di cooperare?

È una domanda che può sembrare banale. Eppure, al di là di ciò che il senso comune parrebbe suggerire come risposte auto-evidenti, la questione è molto complessa e profonda. In altri termini, siamo di fronte ad un quesito del tipo: esiste una morale naturale che stabilisca alcune libertà individuali inalienabili—o, al contrario, che stabilisca alcuni interessi che la società può in modo legittimo far valere coattivamente sui propri singoli membri?

Va premesso che la risposta, qualunque essa sia, può essere solamente di natura “morale descrittiva”—cioè, non sarebbe idonea a prescrivere una condotta da mettere necessariamente in pratica, ma solamente a mostrare la sfera di diritti dell’individuo (o della società) incomprimibili senza cadere in contraddizioni e/o paradossi. In altre parole, si tratta di delineare un sistema di regole e diritti non necessariamente auspicabile, ma senz’altro razionale. Poi, ognuno potrebbe—più che legittimamente—decidere di sacrificare la razionalità del proprio sistema filosofico-morale (da cui intende dedurre un corpo di regole) e di attribuire, invece, maggiore peso ai propri valori morali soggettivi.

Torniamo quindi alla domanda di apertura: fino a che punto la collettività può imporre il lockdown ai singoli individui dissidenti, limitandone alcune libertà? Per rispondere, abbiamo bisogno di identificare, se ve ne sono, alcune libertà connaturate negli esseri umani, la cui negazione si porrebbe in contraddizione con la definizione stessa di “essere umano”.

Una definizione possibile di essere umano è: “essere vivente che agisce intenzionalmente, impiegando alcuni mezzi scarsi a sua disposizione per il conseguimento di alcuni fini—da lui preferiti—a discapito di alcuni altri”. Questa definizione—che pure, a prima vista, presenta alcune zone grigie e si presta ad aporie: una persona in coma smette di essere umana? Un neonato, evidentemente inabile a concepire mezzi e fini, è umano?—è abbastanza accettabile sul piano intuitivo, e presenta una caratteristica interessante: non è possibile negarla senza auto-contraddirsi  (Hoppe, 1995, p. 22).

In altre parole, negare il virgolettato implicherebbe “agire deliberatamente impiegando un mezzo (la speculazione e il linguaggio) per il conseguimento di un fine (la confutazione del virgolettato stesso) a discapito di un altro (fare una passeggiata? Guardare un film?)”. Pertanto, potremmo attribuire alla nostra definizione di “essere umano” la qualità dell’auto-evidenza, qualificandola quindi come “assioma” (Rothbard, [1982] 1998, p. 32).

Una volta accettato questo assioma, la cui negazione sarebbe appunto logicamente inconcepibile e contraddittoria, possiamo fare un passo ulteriore e chiederci: “l’essere umano, per il semplice fatto di essere tale, a cosa ha diritto senza contraddire l’attributo stesso di umanità?”. Una risposta possibile è la seguente: “ha senz’altro diritto alla proprietà sul proprio corpo e sul proprio libero arbitrio”. Di nuovo, possiamo ripetere il procedimento impiegato sopra, e vedere se è possibile negare la risposta virgolettata senza incorrere in contraddizioni e/o paradossi.

Immaginiamo che esistano solo due esseri umani—A e B. Si danno quindi tre casi possibili: 1) uno dei due possiede sia sé stesso sia l’altro (A, proprietario di sé stesso, è anche il padrone di B—o viceversa); 2) ognuno dei due possiede una quota di sé stesso e una quota dell’altro; 3) ognuno dei due è padrone solamente di sé stesso—A possiede A e B possiede B.

Il caso 1), per quanto concepibile, viola però una massima che parrebbe auspicabile per fondare ogni teoria etica—cioè, l’imperativo categorico Kantiano secondo cui ogni massima etica deve essere applicabile allo stesso modo a tutti gli esseri umani (Hoppe, 1998, p. xv). Infatti, se A agisse come padrone di B e se, al tempo stesso, volessimo far valere una forma di imperativo categorico Kantiano, avremmo inevitabilmente una contraddizione—dal momento che non è possibile che A sia al tempo stesso padrone e servo di B. Per quanto meno cogente rispetto alla negazione della definizione di “essere umano” che abbiamo dato sopra, anche il caso 1) si rivela una contraddizione—e va quindi rigettato.

Il caso 2), invece, è in evidente contraddizione con la nostra definizione di “essere umano”. Infatti, se A possedesse una quota di B e viceversa, nessuno dei due potrebbe agire ed impiegare il proprio libero arbitrio senza il consenso dell’altro. Ma ciò sarebbe evidentemente contraddittorio e paradossale, dal momento che l’espressione di un consenso è, per sua stessa natura, una forma di azione deliberata ed intenzionale, che richiede—per l’appunto!—la piena proprietà sulle proprie azioni e sul proprio libero arbitrio! Il caso 2), pertanto, implica l’asserzione dell’esistenza di due esseri umani (A e B) le cui qualità contraddicono la definizione stessa di “essere umano” (capacità di azione e di deliberazione intenzionale). Quindi, anche il caso 2) va rigettato in quanto contraddittorio.

Pertanto, per esclusione, rimaniamo con il caso 3), che non presenta contraddizioni di alcun tipo (Hoppe, 1998, pp. xvi – xvii).

Abbiamo quindi stabilito come “naturale”—cioè, connaturato nella definizione di “essere umano”—il diritto di proprietà di ogni individuo sul proprio corpo e sul proprio libero arbitrio. Eppure, anche un’affermazione apparentemente banale come questa trascina con sé un’enorme quantità di problemi pratici. Se ogni essere umano è padrone di sé stesso, come la mettiamo con alcuni obblighi che la società impone agli individui su loro stessi (vaccinarsi, chiudere il proprio bar durante il lockdown, indossare il casco e la cintura di sicurezza, ecc.)?

Su questo proverò a ragionare nella seconda parte del post.

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