Per chi, come noi, non ne ha mai fatta una, la guerra è un’esperienza difficile da comprendere. Puoi aver letto migliaia di pagine sulle guerre del passato, diari o saggi, visto film e documentari, ma farai comunque fatica a immedesimarti in quelli che ci sono dentro.
L’attuale invasione da parte della Russia ha implicazioni che vanno ben oltre i confini della sola Ucraina. Le variabili legate al conflitto sono molteplici, complesse e alle volte contraddittorie. Si combatte su più fronti: alcuni evidenti e rivoltanti, altri più astratti, ma non per questo meno rilevanti. Resta difficile coniugare saggezza geopolitica e cura umanitaria e, almeno ad oggi, ogni possibile soluzione proposta ha i suoi elementi di forza e di debolezza.
Commento dunque sono
In un contesto simile, da oramai due settimane a questa parte, noto quotidianamente, con dispiacere ma non con eccessivo stupore, un’irrazionalità dilagante – e non sempre giustificata – tra chi, come noi, non è coinvolto direttamente nel conflitto. Nonostante ci siamo schierati collettivamente dalla parte dell’Ucraina, come era giusto fare, sono sconcertato dalle decine di dichiarazioni fuori posto, dalle promesse avventate e, dalle raffiche di parole superflue che ogni giorno circolano sui social e in televisione.
Il medesimo lessico con cui, da due anni a questa parte, commentiamo quella pandemia che oggi sembra essere oramai sconfitta e dimenticata (almeno sui media) – che, specifichiamo, era già un lessico di guerra a tutti gli effetti (“siamo in guerra”, “il nemico”, “le armi”, “l’avanzata”, “il fronte”, “la trincea”, ecc), accettato e anzi rilanciato dai mezzi di comunicazione tutti – ci ritroviamo improvvisamente ad utilizzarlo in maniera pressoché identica per qualcosa di molto più concreto e reale. Non sono convinto personalmente che ci fosse bisogno di una guerra alle porte dell’Europa per capire che l’utilizzo di quel linguaggio fosse esagerato, improprio, e, a giudicare con il senno di oggi, anche piuttosto irrispettoso, ma questo è un altro infinito discorso che non trova qui la giusta sede di discussione.
Oggi che le leve per ottenere l’attenzione delle persone sono altre rispetto al virus, si delinea un carico elevato di ostilità contro un nuovo “nemico” che si trova a decine di migliaia di chilometri e quindi non ti può sentire. Nello zaino di ogni opinionista del web, assieme al portatile, affiora ben presente un bastone da maresciallo.
Molti pensano che la causa che ha portato la Russia a invadere l’Ucraina sia stata l’espansione della Nato – variabile oggettivamente vera se si considerano gli ultimi trent’anni di storia, ma altrettanto strumentale ad un certo tipo di narrazione, considerando che nel febbraio del 2022 non vi era alcuna possibilità concreta riguardo l’entrata dell’Ucraina nella NATO – qui invece un nostro approfondimento sulla reale possibilità di entrata dell’Ucraina in UE -; altri parlano di “deriva del mondo occidentale”; altri ancora considerano tutto questo un gesto totalmente irrazionale dettato da una qualche presunta infermità mentale che ha colpito il presidente russo Vladimir Putin. Alcuni, addirittura, scrivono in maniera bizzarra che l’azione militare sia frutto di un patto segreto tra le mafie russa e ucraina.
Sentendosi quasi in dovere di sapere e capire immediatamente quello che succede, ognuno dice la sua. Si “spara” a raffica, come se esprimere la propria opinione a caldo sulla rete fosse un modo per partecipare attivamente a quel mondo, contribuendo ad arginare il conflitto.
Come risultato si ottiene una geopolitica che diventa la continuazione del Risiko con altri mezzi.
Guazzabuglio
Chi ha vissuto il mondo prima del 1989 rievoca i propri incubi; io, che fortunatamente non posso conoscerli e di conseguenza empatizzare con loro, faccio fatica a trovare le parole per esprimere quelli di oggi. Nel frattempo seguo le notizie, cercando di non perdere l’orientamento “in the fog of war”. Ma anche questo non è facile.
I social sono luogo di caos in cui tutto appare decontestualizzato e in cui è difficile distinguere realtà, finzione e propaganda. I media occidentali tradizionali celebrano l’epica e romantica resistenza dell’Ucraina che diventa simbolo della libertà e della lotta contro l’oppressore: il presidente “bravehheart” Volodymyr Zelens’kyj continua a rivolgere i suoi carismatici e persuasivi appelli al mondo intero; tredici eroi ucraini si fanno ammazzare al grido di “fottiti nave russa” (notizia poi rivelatasi falsa, ma Libero questo non lo sa); le foto dei bambini morti appaiono sugli schermi televisivi; gli anziani non abbandonano il paese ma rimangono a difendere la madre patria; nelle chat dei social media ci si scambia informazioni su come costruire molotov. Gli ucraini tutti sembrano invincibili visti in tv, hanno persino voglia di scherzare.
La narrazione è proposta dagli stessi media che, dall’altro lato della medaglia, non sembrano però essere assolutamente in grado di contestualizzare la decisione russa di invadere l’Ucraina all’interno di un’analisi più ampia. Personalmente, non ricordo tanto clamore e altrettanta attenzione mediatica quando Stati Uniti e Gran Bretagna – assieme ad una coalizione di Paesi occidentali – violarono il diritto internazionale e la sovranità di due Stati, invadendo Afghanistan e Iraq. Non ricordo nemmeno altrettante analisi di approfondimento geopolitico, mentre Israele radeva (e rade tutt’ora) al suolo intere città di civili sulla Striscia di Gaza, con operazioni di bombardamento che continuano a susseguirsi da quindici anni a questa parte, ma che vengono abitualmente ignorate; proprio durante l’ultima di queste, nel maggio 2021, il presidente Zelensky affermò che l’unica tragedia a Gaza era quella vissuta dagli israeliani, che è un po’ come dire che i russi sono gli unici a soffrire oggi in Ucraina.
Mi trovo confuso di fronte a tanta complessità, sotto ogni punto di vista. Sono consapevole di quanto sia difficile dibattere su un evento tanto delicato, in primo luogo per me, senza farsi trascinare nella propria comfort zone ideologica o nella propria cultura del sospetto. A me personalmente è successo tante altre volte di chiedermi se avessero ragione quelli che si apprestavano, o almeno si dichiaravano pronti a morire per qualcosa, da Sarajevo a Gerusalemme, da Kabul a Mogadiscio, dalla Libia alla Siria. Mi succede pure oggi con l’Ucraina.
Nel profondo credo che non ci sia niente di bello o di glorioso nel morire dilaniati da una bomba o schiacciati da un carro armato. Buona parte delle reclute di questa guerra moriranno per mano di altre reclute, a loro volta ragazzini inesperti e spaventati. Non intendo mettere in discussione la volontà delle decine di migliaia di civili ucraini di difendersi da un’aggressione con ogni mezzo necessario: lottare per la propria sovranità, non accettando trattati risalenti a 32 anni fa in cui due Stati hanno deciso le sorti di un Paese terzo, è legittimo e sacrosanto.
Empatizzo con questa posizione – e disprezzo il paternalismo con cui pretendiamo noi di decidere cosa gli ucraini debbano o non debbano fare -, così come fino a ieri difendevo il diritto all’autodeterminazione della Catalogna, o della Palestina, o ancora di Hong Kong. E non giudico nemmeno la posizione di chi è favorevole all’invio di armamenti in Ucraina, chi sostiene, seppur da casa sua, la resistenza del Paese, chi è convinto che non sia possibile instaurare dialoghi con la Russia di Putin. Credo siano posizioni legittime, magari pure sensate. Magari opzioni migliori non ce ne sono, al momento.
Seppure complesse ad oggi mi paiono comunque più intelligenti rispetto al rifiuto generalizzato della guerra messo in scena da alcune manifestazioni di pace negli ultimi giorni, che, di fronte all’evidenza dell’aggressione di Putin nei confronti dell’Ucraina, scelgono quella “neutralità attiva”, che è un po’ la variante geopolitica del “dimagrire dormendo”. Queste manifestazioni si declinano rifiutando incondizionatamente le barbarie tutte, quando ci sono precise ragioni se QUESTA pace è stata violata e oggi facciamo i conti con QUESTA guerra. Non indagarle, non riconoscerle e non valutarle ci permette di comprendere solo in parte ciò che sta avvenendo sul campo, offuscando in tanti fra noi la distinzione tra chi è vittima e chi è aggressore, tra i torti e le ragioni, al di là delle vischiosità ideologiche dure a morire.
Insomma io non so cosa sia giusto e cosa sbagliato, non ho – e non pretendo di avere – le competenze per tale giudizio. È già complicatissimo – e pure interessantissimo, geopoliticamente parlando – tentare di individuare le molteplici e intrecciate cause che hanno portato all’attuale conflitto, figuriamoci quanto lo sarebbe ipotizzare quale direzione prenderà un tale evento, tanto enorme e, tanto più grande di me.
Ad oggi la guerra si prospetta lunga e costosa, soprattutto in termini di vite umane. Probabilmente si intensificherà nelle settimane a venire, perché la storia insegna che le guerre in suolo europeo hanno la tendenza a intensificarsi. Queste sono, però, solo ipotesi: gli eventi del mondo non sono così prevedibili come lo si vorrebbe (alzi la mano chi avrebbe ipotizzato l’attuale situazione solo due settimane fa), le variabili sono molteplici, così come le domande a cui oggi è difficile dare una risposta. Il “mio” prospetto si potrebbe rivelare falso e azzardato già domani.
In casi come questi si corre il rischio di esagerare, si è tentati di interpretare tutto alla luce dello spaesamento e delle emozioni che la guerra indubbiamente provoca, con risultati alle volte iper-semplificati o semplicemente falsi, in ogni caso discutibili. Nel momento stesso in cui eventi così enormi ci piombano addosso, si innesca un totale corto circuito che invade la nostra quotidianità, o perlomeno la mia, e si fa fatica a mantenere la lucidità. È quasi impossibile provare indifferenza. L’impotenza che provo di fronte ad un evento unico e incomparabile come lo scoppio di una guerra, di fronte allo scoppio di questa specifica guerra e alle sue catastrofiche conseguenze, non trova da settimane facili soluzioni.
Come espediente, seppur parziale, ho deciso per ora di rifugiarmi in un tanto breve quanto significativo passaggio storico-letterario, in grado di spiegare la condizione di un uomo qualsiasi davanti all’enormità della guerra. La frizione di una cosa enorme contro un’altra assolutamente insignificante. Un pensiero che all’accumulo ossessivo e costante di informazioni da ogni parte del pianeta preferisce la stasi, il prendersi un momento per quella rielaborazione degli eventi che è sempre più cruciale ai fini di una corretta interpretazione. Un pensiero lucido, realista e tutt’altro che disinteressato che Franz Kafka annotò sul proprio quaderno degli appunti in data 2 agosto 1914, all’indomani della decisione da parte del governo tedesco di prendere parte alle ostilità.
«La Germania ha dichiarato guerra alla Russia. – Nel pomeriggio corso di nuoto»
F. KAFKA, Tagebücher 1912-1914, Frankfurt a. M., Fischer, 2008, 165; testo in lingua: «Deutschland hat Russland den Krieg erklärt. – Nachmittag Schwimmschule».